Il camion dei traslocatori si parcheggia sotto casa, a San Francisco.
Dovremmo essere dei professionisti dei traslochi, invece no, macché.
Ogni volta è un dramma. Anche se con questo siamo arrivati al dodicesimo trasloco delle
nostre vite adulte, restiamo dilettanti allo sbaraglio.
Mi guardo attorno e capisco perché.
Lo stesso giorno in cui il camion della California Express (specializzato nel
coast-to-coast) si piazza davanti al nostro palazzo, mi rendo conto che ci sono tre camion di
traslochi al lavoro nel giro di altrettanti isolati.
L’America non fa altro che cambiar casa. Buon segno: la mobilità è ripartita alla grande,
conferma che la ripresa economica c’è. Tornano a presentarsi le offerte di lavoro e gli
americani fanno quel che hanno sempre fatto: le valigie. Chiudono casa in un batter d’occhio,
pronti a trasferirsi nel Nevada o nel Dakota, non importa, purché la paga sia buona e le scuole
per i figli siano decenti. Si vende casa e poi si ricompra,
si rimborsa un mutuo2 e se ne apre un altro.
Tutto è fluido, organizzato per una società che non sta mai ferma. E i mobili? E i
ricordi? E le cantine piene di pezzettini di noi stessi, diari di gioventù, letterine scritte
dai figli quando erano alle elementari, decorazioni natalizie che usammo quella volta a Milano o
a Parigi tanti anni fa? E gli album delle foto in bianco e nero dei nonni?
Abbiamo anche qualche oggetto che si potrebbe definire d’antiquariato.
Magari solo roba da rigattieri, ma fa parte di un certo stile italiano o europeo. Mobili
pesanti, carichi anche loro di ricordi, se non altro dei luoghi dove abbiamo vissuto, da Roma a
Pechino.
I nostri vicini americani, in questi casi organizzano un garage sale.
Cioè tirano fuori di casa quasi tutto, lo mettono sul marciapiede di fronte alla porta del
loro garage: in vendita. Chiunque passi butta un’occhiata, se vuole fa un’offerta. Con pochi
dollari puoi portarti via di tutto. A San Francisco nel giorno del mio trasloco il quartiere è
un susseguirsi di garage sale. Vendo tutto e me ne vado. Mi alleggerisco
del passato e ricomincio da zero. Se il garage sale funziona bene, c’è chi riesce a fare a
meno dei traslocatori a pagamento: si affitta un trailer, si carica su quel poco che è rimasto,
e via per la nuova destinazione (dove ci sarà un’Ikea dietro l’angolo).
Tutto è fungibile, effimero e transitorio.
Quelli della Salvation Army hanno un servizio di trasportatori che vengono a domicilio a
sbarazzarti di cose che non vuoi più.
Tu le regali, loro le mettono in vendita nei loro negozi o aste pubbliche, il ricavato va
in beneficenza. Si vede che sono abituati ad avere a che fare con gli americani: arrivano in
casa già certi di dover rifiutare almeno la metà della roba, convinti che io voglia rifilargli
delle schifezze che andrebbero portate alla discarica. Sono abituati a una società usa-e-getta,
l’altra faccia dell’America che cambia indirizzo ogni due o tre anni. Non devo offendermi di
fronte a questi ragazzi dell’Esercito della Salvezza (volontari, passano le giornate a caricare
quintali di roba sui camion), quando mi dicono che un mobile tramandato per generazioni nella
mia famiglia a loro non interessa, «non è in
ottimo stato, non è vendibile». I miei figli, più americani, sono pronti a vendere su ebay
anche le mie camicie. A mia moglie invece viene una lacrima di commozione perfino quando vede
partire, guidata da uno sconosciuto, la sua vecchissima Jeep rossa.
Poveri sentimentali, trattiamo le nostre case come i gusci che le tartarughe o le lumache
si trascinano appresso. Negli States fare i bagagli per un’altra città è quasi la regola. Per
noi no, è un dramma anche questa volta.
(da La Repubblica D, Luglio 2013, riduzione)