Venivo da Torlano e camminavo verso Udine quando mi imbattei in Giacomo, un contadino
circa trentenne vestito anche più miseramente dei soliti contadini. La giubba era sdruscita e la
maglia di sotto anche.
La pelle che ne trapelava aveva qualche cosa di pudico anch’essa, quasi
fosse stata un altro vestito così bruciata dal sole. Per camminare meglio
portava le scarpe in mano e i piedi nudi non pareva evitassero le pietre.
Ebbe bisogno di un zolfanello per una sua piccola pipa e la conversazione
fu avviata. Non so che cosa egli abbia appreso da me ma ecco quello che io sentii da lui.
Preferisco di raccontare la storia con le mie parole prima di tutto per farla più breve e poi
per la ragione semplicissima che non saprei fare altrimenti. La sua durò fino a Udine e anche
oltre perché finì dinanzi ad un bicchiere di vino che io pagai. Non trovo che la storia mi sia
costata troppo.
Giacomo, nel suo villaggio, era detto il poltrone. Ben presto, già nella sua prima
gioventù fu noto a tutti i proprietari per due qualità: quella di non lavorare e quella
d’impedire il lavoro anche agli altri. Si capisce come si faccia a non lavorare; più difficile è
intendere come un uomo solo possa
impedire il lavoro a ben 40 altri. Vero è che fra quaranta è possibile di
trovare degli alleati quando si propugni2 di non lavorare. Ma si trovano
anche degli avversari perché v’è più gente che non si creda che ha la malattia del lavoro
e che vi si accinge con la bava alla bocca vedendo dinanzi a sé una sola meta. Quella di finire,
di finire tutto, di finire bene. Diamine!
L’umanità lavora da tanti anni che qualche poco di una tale benché innaturale tendenza
deve essere entrata nel nostro sangue. Ma nel sangue di Giacomo non ve n’era traccia. Egli sa
bene il suo difetto. Dovette accorgersene nel suo povero corpo dimagrito e maltrattato e ritiene
che la poca voglia di lavorare sia da lui una malattia.
Per impedire ad altri di lavorare Giacomo esplicava un’attività di pensiero incredibile.
Cominciava col criticare le disposizioni prese per il lavoro. Si trattava di calare del vino in
una cantina. Vi lavoravano solo lui e il padrone. Come impedire di lavorare al padrone stesso?
Il primo tinozzo aveva viaggiato con una certa lentezza passando dal carro sulla strada,
attraverso un corridoio della casa e giù in cantina. Giacomo, tutto sudato, rifletteva. – Vuoi
venire? – chiese minaccioso il padrone.
– Stavo pensando – disse Giacomo – che si porta il vino prima in là e poi in qua; il
corridoio va in là e la scala riporta sotto la strada. Perché non fare un’apertura dalla strada
alla cantina e calare il vino direttamente al tinozzo? – La proposta non era di certo troppo
stupida ed il padrone si mise a discuterla. Prima di tutto la cantina non era posta direttamente
sotto la strada ove c’era il carro ma traverso un’apertura vi si poteva accedere solo da un
campo laterale; Giacomo rispose che con certe prudenze il carro poteva benissimo transitare sul
campo. E andarono a vedere. Il dislivello non era grande e lo si poteva colmare. E il padrone
diceva di no e Giacomo di sì. E ambedue avevano accesa la pipetta. E poi il padrone a corto di
argomenti dichiarò che riteneva che una cantina con l’apertura sulla via sarebbe stata
danneggiata nella frescura.
E Giacomo citò le cantine dei paesi circonvicini le quali l’apertura sulla via ce
l’avevano. Tutte citò; non dimenticandone una! Intanto il sole sulla via scaldava il vino e il
padrone finì con l’arrabbiarsi. E Giacomo anche. Poco dopo egli andava all’osteria con in tasca
i soldi di un quarto di giornata mentre il padrone chiamava in aiuto le donne di casa e i
passanti per salvare il suo vino.
Giacomo all’osteria non riposava no! Egli continuava a discutere sulla necessità di dare
una diretta comunicazione con la via ad ogni cantina. E tale fu la sua propaganda che ora nel
paesello non c’era cantina che non avesse tale apertura. Ora che ha ottenuto un tanto si dedica
attivamente ad un’altra propaganda. Vuole che davanti ad ogni apertura ci sia una gru per
calarvi e estrarne ogni sorta di merci pesanti.
Voleva convincerne anche me ma io, grazie al Cielo, non ho cantine.
Un giorno Giacomo fece un affare d’oro. Una quarantina di loro lui compreso aveva assunto
a contratto la falciatura di un vasto campo.
Doveva esserci lavoro per una quindicina di giorni. Avevano eletti dei
capi ma i poteri di costoro non erano ben definiti. Giacomo non mancava
di puntualità e alle quattro del mattino era sul posto. Cominciò col protestare contro la
scelta della parte da cui si doveva cominciare.
Di mattina si doveva volgere la schiena al sole. Aveva ragione ma i quaranta uomini
dovettero così camminare per un buon quarto d’ora per
portarsi al lato opposto ch’era il più distante dal villaggio. Poi cominciò a rifiutare la
falce che gli era stata attribuita. In genere egli le preferiva a
manico singolo e faceva propaganda perché anche gli altri le preferissero.
Poi, presto, troppo presto, sentì il bisogno d’aguzzare la falce. Propose diversi istituti
del tutto nuovi su quei campi. Due dovessero essere adibiti il giorno intero ad aguzzare le
falci.
Quando egli non lavorava s’adirava che i suoi vicini a destra e sinistra continuassero il
lavoro. Nascevano irregolarità che non potevano essere utili al buon andamento del lavoro.
Quello era notoriamente un lavoro che bisognava fare insieme o non farlo. Altrimenti il povero
diavolo che restava indietro, senza sua colpa, poteva falciare le gambe del suo compagno troppo
zelante. I capi guardavano esterrefatti la faccia di Giacomo magra, mai sbarbata, arrossata dal
sole e da una sincera indignazione.
Era un uomo in buona fede costui e non c’era verso di arrabbiarsi con lui! Gli offrirono
tutta la sua partecipazione, pronta, in contanti, se accettava di non comparire il giorno
appresso. Perché se lui c’era, non v’era dubbio che
la falciatura non sarebbe finita mai. Quando essi sarebbero giunti alla fine l’altra parte
avrebbe già riprodotta tutta l’erba medica falciata e i mietitori sarebbero morti di fame
condannati com’erano alla paga contrattuale di 15
giorni. Giacomo esitò! Egli aveva spesso incassati dei salari senza lavorare ma mai era
stato pagato per non lavorare.
– E se venissi ogni giorno per un paio d’ore per darvi qualche buon consiglio? – Così
oltre che la paga ebbe la minaccia che se nei 15 giorni seguenti passava per di là sarebbe stato
lapidato. S’adattò ma la sua fama era distrutta e nessuno lo volle più. Il contratto da cui era
stato allontanato era finito male; la falciatura aveva abbisognato di interi 30 giorni. I capi
dicevano ch’era bastata una giornata di convivenza con Giacomo per creare fra quei 40 mietitori
una decina di Giacomi, cavillosi come lui e
pareva alla fine un’assemblea legislativa tante erano le nuove proposte
che pullulavano per regolare la falciatura di un campo.
Giacomo divenne nomade. Solo a questo patto egli poteva trovare lavoro.
Aveva le tasche piene di certificati perché tutti gliene davano pur di liberarsi di lui al
più presto. Così passò tutto il Friuli la Carnia il Veneto
sognando sempre di trovare un lavoro bene organizzato. S’era però talmente specializzato
nella critica che non sapeva tacere neppure quando
lui non c’entrava. Così non passava carro ch’egli non criticasse il modo
com’era caricato. Veniva mandato a quel paese ed egli continuava le sue
peregrinazioni senza abbadarci troppo. Se però credeva d’avere ragione
allora era capace di farsi fare in due ma le sue ragioni doveva dirle. Egli
aveva dovuto passare accanto ad un carro caricato tanto in alto ch’egli
avrebbe potuto esserne schiacciato. Allora alzava la voce ed il suo sonoro
dialetto celta pigliava delle andature epiche. Era capace d’appellarsi anche
ai carabinieri. E gli serviva solo di pretesto il pericolo da lui corso. La ragione intima
che lo animava era l’odio per il lavoro male organizzato. E
mi raccontava: – Quando si nasce disgraziati! Io non feci mai del male a
nessuno e tutti mi odiano perché voglio mettere ordine e perché non posso soffrire un
lavoro male iniziato! – Non era la prima volta che veniva a Udine; era la seconda. Ci venne la
prima volta in cerca di un po’ di
riposo. Udine era una città abbastanza popolosa ed egli avrebbe potuto
riposare prima che tutti lavessero preso in odio.
Fu l’offerta di un posto straordinario che gli venne dal suo paese natio per cui lasciò la
prima volta Udine. – Si trattava di un lavoro – mi confessò candidamente – in cui non c’era
niente da fare. Ora a me il lavoro piace ma pensavo che se trovavo un lavoro pel quale non
occorreva lavorare doveva certo essere un lavoro ben organizzato e perciò lo accettai con
entusiasmo. – Lasciò Udine e con dieci ore di buon cammino raggiunse il suo paese natio. Amava
di camminare. – Altri può credere – diceva – che il muoversi sulle ruote sia un perfezionamento
in confronto al moversi sulle gambe. Io no! Credo sia un modo di riposare quello di muoversi.
da I. Svevo, I racconti, Editori Riuniti, Roma 1988