Quando uscì dalla città si sentiva abbastanza bene, malgrado il peso e il
dolore alle articolazioni e alla schiena, perché era riuscito a compiere il
primo passo, aveva rotto il ghiaccio e possedeva i suoi primi dollari americani.
Ma quando si trovò a un paio di chilometri dalla città, mentre attraversava
un campo deserto, diretto verso le alture dove si trovava il suo accampamento, fu
sopraffatto da una crisi violenta e improvvisa. Tutto si
mescolava dentro di lui, l’ambiente estraneo, il pericolo, il dolore e l’angoscia
fisica. Cadde a terra, il corpo e la mente in rivolta contro la violenza subita da quel
posto così misterioso, così diverso, così sconosciuto.
Si sentiva male: male per il lungo e pericoloso viaggio, male per tutte le medicine,
pastiglie, iniezioni, gas inalati, e male per tutta l’ansia, l’attesa della crisi. Terribilmente
male per lo spaventoso fardello del proprio peso.
Sapeva da anni che, quando fosse venuto il momento, quando sarebbe
finalmente atterrato per cominciare ad attuare quel progetto tanto complesso,
preparato da tanto tempo, si sarebbe sentito così. Eppure quel posto, per quanto l’avesse
studiato, e avesse provato all’infinito la parte che vi avrebbe recitato, era incredibilmente
diverso da lui, e quella sensazione – adesso che era in grado di usare i sensi – era
travolgente. Si distese sull’erba sconvolto da tremendi conati di vomito.
Non era un uomo, eppure era molto simile a un uomo. Era alto uno e novanta, e certi uomini
sono anche più alti; aveva i capelli bianchi come quelli di un albino ma la faccia era
leggermente abbronzata, e gli occhi di un azzurro pallido. La struttura del corpo era oltremodo
esile, le fattezze delicate, le dita lunghe, sottili e la pelle quasi traslucida3, priva di
peli. Il volto faceva pensare a un elfo, gli occhi grandi, intelligenti, potevano essere quelli
di un ragazzo (avevano uno sguardo infantile) e i capelli bianchi e ricciuti gli erano cresciuti
intorno alle orecchie. Aveva un aspetto molto giovane.
C’erano anche altre differenze: le unghie erano artificiali, per esempio, perché
lui non ne possedeva per natura. I piedi avevano soltanto quattro dita, era privo di
appendice intestinale e dei denti del giudizio. Non gli sarebbe potuto
venire il singhiozzo perché il suo diaframma, come tutto il resto dell’apparato
respiratorio, era estremamente solido e molto ben sviluppato. Il torace poteva gonfiarsi,
all’occorrenza, di quindici centimetri, mentre il peso totale del
corpo era relativamente basso, sui quarantacinque chili.
Però aveva ciglia e sopracciglia, i pollici opponibili, e mille altre caratteristiche
fisiologiche di un normale essere umano. Non poteva essere affetto da verruche, ma andava
soggetto alle ulcere6 gastriche, al morbillo e alla carie dentaria. Era un essere umano,
insomma, ma non esattamente un uomo. Come gli uomini poteva provare amore, paura, intenso dolore
fisico e un senso di autocommiserazione.
Dopo una mezzora cominciò a sentirsi meglio. Lo stomaco gli tremava
ancora, e gli sembrava di non poter sollevare la testa, ma aveva la
sensazione che la fase acuta della crisi fosse superata, e cominciò a osservare più
obiettivamente il mondo circostante. Si mise a sedere e guardò
il campo in cui si trovava. Era un pascolo scabro e piatto, chiazzato qua
e là da erba ingiallita, ginestre, e zone vetrose di neve ghiacciata. L’aria
era limpidissima e il cielo coperto, cosicché la luce diffusa e morbida non gli feriva gli
occhi come il sole abbagliante di due giorni prima. Oltre un ciuffo di alberi scuri e spogli che
orlavano uno stagno c’era una casetta con accanto una stalla. Attraverso gli alberi riusciva a
vedere l’acqua dello stagno, e la vista di quella gran quantità di liquido gli mozzò il respiro.
Ne aveva già visto tanto, nei suoi primi due giorni sulla Terra, ma non ci si era
ancora abituato. Era un’altra delle cose a cui si era preparato, ma che gli procuravano
comunque ogni volta un trauma. Sapeva, naturalmente, degli oceani immensi, dei laghi e dei
fiumi, lo sapeva fin da quando era ragazzo, ma la vista reale di quella profusione d’acqua in un
semplice stagno era sbalorditiva.
Iniziava a percepire sfumature di bellezza anche nell’aspetto per lui
insolito del campo. Era del tutto diverso da come glielo avevano descritto.
Si era già reso conto che la maggior parte delle cose di questo mondo
erano molto diverse dalle descrizioni, eppure ora trovava piacere nei colori
e nella consistenza aliena degli oggetti, e nelle insolite, nuove sensazioni
della vista e dell’olfatto. Nonché dell’udito, che era estremamente sensibile e percepiva
una quantità di rumori bizzarri e gradevoli in mezzo all’erba, il vario grattare e ticchettare
degli insetti sopravvissuti al freddo di quell’inizio di novembre, e addirittura distingueva,
ora che teneva la testa contro il suolo, gli infinitesimi mormorii della terra stessa.
Improvvisamente ci fu un fremito nell’aria, uno sfrecciare di ali nere, poi un richiamo
roco e funebre, e una dozzina di corvi passarono sopra di lui nel cielo grigio. L’antheano
stette a osservarli finché non scomparvero alla vista, e poi sorrise. Dopotutto, questo sarebbe
stato un mondo piacevole.
da W. Tevis, L’uomo che cadde sulla Terra, Minimum fax edizioni, Roma 2006