Conosco abbastanza ora del mondo, da avere quasi perduta la facoltà di
stupirmi troppo per qualunque cosa; ma è per me ancor oggi argomento
di qualche sorpresa il fatto che mi abbiano scacciato con tanta facilità,
dati gli anni che avevo. Un bimbo di eccellenti capacità e di tante facoltà
d’osservazione, vivace, volenteroso, delicato, e tanto inerme di corpo e
di spirito, mi pare una cosa sbalorditiva che nessuno facesse il minimo
cenno per difenderlo. Eppure nessuno si mosse; e io divenni, all’età di
dieci anni, un piccolo schiavo sfrattato, alle dipendenze di Murdstone e
Grinby.
Il magazzino di Murdstone e Grinby era sul Tamigi. Si trovava giù in
Blackfriars. Le moderne migliorie hanno un poco trasformato il luogo,
che era allora l’ultima casa in fondo a una via angusta che discendeva al
fiume e terminava con certi scalini dove la gente s’imbarcava. Era una
casa vecchia decrepita, con uno scalo proprio, strapiombante sull’acqua
quando c’era la marea, e sul fango quando la marea si ritirava, e letteralmente invasa dai
topi. Le sue stanze a pannelli, sbiadite per il sudiciume e il fumo, credo, di cent’anni; i
pavimenti e la scala guasti; gli squittii e le zuffe di vecchi topi bigi giù nelle cantine; il
sudiciume e la fradicità del luogo; sono cose che ho in mente non come remote di tanti anni, ma
attuali.
Tutte mi stanno innanzi precisamente come mi stavano nell’ora
maledetta che vi entrai in mezzo la prima volta con la mano tremante
nella mano del signor Quinion.
Murdstone e Grinby facevano affari con ogni sorta di gente, ma un ramo
importante dell’azienda era la fornitura di vini e liquori. Io ero uno dei
garzoni.
Eravamo in tre o quattro, me compreso. Il luogo dove lavoravo era
un cantuccio del magazzino, dove il signor Quinion potesse vedermi,
quando nell’ufficio saliva sulla traversa del suo sgabello e mi dava
un’occhiata attraverso la finestra sovrastante alla sua scrivania. Qui, la
prima mattina che cominciai sotto così favorevoli auspici5 a vivere con
le mie sole forze, il più anziano dei garzoni regolari venne incaricato di
spiegarmi il lavoro. Si chiamava Mick Walker, e portava un grembiale
di cencio6 e un berretto di carta. M’informò che suo padre era barcaiolo
e sfilava nel corteo del Lord Sindaco portando sul capo un’acconciatura
di velluto nero. M’informò pure che il nostro principale collega sarebbe stato un altro
ragazzo che mi presentò col nome per me straordinario di “Patate Marce”. Venni in chiaro,
tuttavia, che questo giovane non era stato così battezzato, ma che così lo chiamavano in
magazzino per via della sua carnagione pallida e macilenta. Il padre di Patate era
traghettatore, e aveva inoltre l’onore di essere pompiere, e come tale era impiegato in uno dei
grandi teatri, dove non so che giovane parente di Patate – credo la sorellina – faceva il
Folletto nelle pantomime.
Non c’è parola che possa esprimere l’intima angoscia che mi riempì il
cuore quando mi vidi caduto in quella compagnia; confrontai quei miei
colleghi di ogni giorno avvenire con quelli della mia più felice infanzia e mi
sentii le mie speranze di diventare un personaggio sapiente e famoso schiacciate nel
cuore. Mi riesce indescrivibile l’acuto ricordo del senso, che provai, di avere ora perduto ogni
speranza; di vergogna per la mia posizione;
di angoscia al pensiero che giorno per giorno ciò che avevo imparato e
pensato, in cui mi ero compiaciuto e a cui avevo appuntato i miei sogni e la mia
emulazione, sarebbe dileguato lontano da me, a poco a poco, per non venirmi restituito mai più.
Tutte le volte che nel corso di quella mattina Mick Walker uscì, io mescolai le mie lacrime con
l’acqua nella quale lavavo le bottiglie, e singhiozzai come avessi una crepa nel petto e questo
fosse in pericolo di scoppiare.
Il pendolo dell’ufficio segnava la mezza e tutti si preparavano
per andare a pranzo, quando il signor Quinion bussò alla sua finestra
e mi fece cenno di entrare.
– Questo – disse il signor Quinion, alludendo a me, – è l’ometto.
– Questo – disse lo sconosciuto con un certo strascicato tono di condiscendenza nella voce
e una certa indescrivibile aria di fare qualcosa di molto aristocratico, ciò che mi colpì assai;
– è il signorino Copperfield. Spero di trovarvi in buona salute, signor mio.
Risposi che stavo benissimo, e così speravo di lui. Sa il Cielo che stavo
bastantemente11 a disagio; ma non era nel mio carattere in quell’epoca
della mia vita lagnarmi molto, e così dissi che stavo benissimo e così speravo
di lui.
– Io sto – rispose lo sconosciuto, – benissimo, grazie a Dio. Mi scrive una lettera il
signor Murdstone, nella quale mi fa presente che gli farei cosa grata se ospitassi in una camera
nel retro della mia casa, che presentemente è vuota… e destiniamo insomma a subaffittare come…
insomma – disse lo sconosciuto con un sorriso e uno scoppio di confidenza, – come stanza da
letto… il giovane principiante che ho attualmente il piacere di… – e lo sconosciuto agitò la
mano e abbassò il mento nel colletto della camicia.
– Questo è il signor Micawber – mi disse il signor Quinion.
– Hem! – disse lo sconosciuto, – così mi chiamo infatti.
– Il signor Micawber – disse il signor Quinion, – è un conoscente del signor Murdstone.
Riceve ordini a commissione per nostro conto, quando ne trova. Gli ha scritto il signor
Murdstone sull’argomento del tuo alloggio, e lui ti prenderà come inquilino.
– Il mio indirizzo – disse il signor Micawber, – è Windsor Terrace, City Road. Io…
insomma, – disse il signor Micawber
con la stessa aria aristocratica e un altro scoppio di confidenza,
– …abito là.
Gli feci un inchino.
– Sotto l’impressione, – disse il signor Micawber, – che le vostre
peregrinazioni in questa metropoli non siano ancora state molto
ampie, e che potreste trovare qualche difficoltà nel penetrare
gli arcani della Moderna Babilonia in direzione della City Road…
insomma – disse il signor Micawber, con un altro scoppio di confidenza,
– che possiate smarrirvi… sarò lieto di passare questa sera e impartirvi le istruzioni
per il cammino più breve.
Lo ringraziai con tutto il cuore, perché era ben gentile da parte sua offrire
di prendersi quel fastidio.
– A che ora – disse il signor Micawber, – debbo…
– Verso le otto – disse il signor Quinion.
– Verso le otto – disse il signor Micawber. – Vogliate accogliere il mio
augurio di una felice giornata, signor Quinion. Non vi disturberò oltre.
E si mise il cappello e uscì con la canna sotto il braccio a viso eretto e,
quando fu fuori dell’ufficio, prese a canterellare un motivo.
Poi il signor Quinion m’impegnò formalmente a prestare tutta l’opera
che potevo nel magazzino di Murdstone e Grinby, a un salario, credo, di
sei scellini la settimana. Non sono certo se fossero sei o sette. Propendo a
credere, dalla mia incertezza su questo punto, che fossero sei in un primo
tempo e sette in seguito. Mi sborsò una settimana intiera (credo di tasca
sua), e io pagai dodici soldi a Patate perché mi portasse il baule, la sera, a
Windsor Terrace; essendo questo, per quanto piccolo, troppo pesante per
le mie forze. Pagai altri dodici soldi per il pranzo, che consistette in un
pasticcio di carne, e impiegai l’ora che ci era concessa per il pasto, a gironzolare per
le vie.
Le sera, all’ora convenuta, il signor Micawber ricomparve. Mi lavai le
mani e il viso, per fare anche più onore alla sua distinzione, e ci dirigemmo
insieme alla volta di casa nostra, come suppongo che dovrò ora chiamarla;
imprimendomi il signor Micawber, mentre andavamo, i nomi delle vie e le
forme dei cantoni, perché potessi con facilità ritrovare la mia strada l’indomani.
Giunti alla casa in Windsor Terrace (che, osservai, era come lui male
in arnese, ma faceva altresì come lui tutto lo sfoggio che poteva), egli mi
presentò alla signora Micawber, una dama sparuta e appassita, per nulla
giovane, che sedeva in salotto (il primo piano era privo di mobilio e le
persiane abbassate per ingannare i vicini), con un bimbo al seno. Questo
bimbo era uno di due gemelli; e posso osservare qui che quasi mai, in
tutta la mia pratica con quella famiglia, vidi una buona volta tutti e due i
gemelli staccati dalla signora Micawber. Ce n’era sempre qualcuno intento
a ristorarsi.
C’erano altri due bambini: il signorino Micawber di quattro anni circa,
e la signorina Micawber di tre. Tutti costoro, e una giovane di carnagione
fosca, servente nella famiglia, che parlava sputacchiando e m’informò prima
che fosse trascorsa mezz’ora che era “un’orfana” e veniva dal vicino ricovero
di San Luca, formavano tutto lo stabilimento. La mia stanza era in cima
alla casa, nella parte retrostante; era priva di finestre; tutta dipinta di un
ornato che la mia giovanile immaginazione raffigurò come crostini blu, e
ammobiliata piuttosto scarsamente.
– Non avrei mai creduto – disse la signora Micawber quando fu salita,
gemelli e tutto, per mostrarmi la camera, e si sedette a riprendere fiato, – prima di
sposarmi, quando vivevo con papà e mamma, che mi sarei trovata un giorno nella necessità di
prendere un inquilino. Ma viste le difficoltà in cui
si trova il signor Micawber, ogni considerazione di privato sentimento deve
tacere.
Io dissi: – Sì, signora.
In cotesta casa e con quella famiglia, trascorrevo le mie ore di riposo.
La colazione, una pagnotta da due soldi e due soldi di latte, me la provvedevo
da me e tenevo un’altra pagnottina e un pezzetto di formaggio su
uno speciale scaffale di una speciale credenza per farne la mia cena quando
tornavo la sera. Ciò produceva una breccia nei sei o sette scellini, lo so
bene; e me ne stavo tutta la giornata al magazzino e dovevo mantenermi
con quella somma per l’intiera settimana. Dal mattino del lunedì alla sera
del sabato, io non avevo consigli né raccomandazioni, né incoraggiamento,
né consolazioni, né assistenza, né appoggi di nessun genere, da
parte di nessuno, a quanto ricordo, e lo dico per quanto spero di andare
in Paradiso!
Ero così giovane e bambino, e tanto poco in grado – come poteva essere
altrimenti? – di sobbarcarmi all’intero carico della mia esistenza, che
spesso la mattina, recandomi da Murdstone e Grinby, non sapevo resistere
alla tentazione dei dolci stantii esposti in vendita a metà prezzo nelle vetrine
dei pasticcieri, e ci spendevo il denaro che avrei potuto conservare per il
pranzo. Poi me ne stavo senza pranzo, oppure comperavo un panino o una
fetta di pasticcio.
Avevamo una mezz’ora, mi pare, per il tè. Quando avevo denaro a sufficienza, di solito
prendevo un quartuccio di caffé già preparato e una fetta
di pane e burro. Quando non ne avevo, di solito passavo a dare un’occhiata
alla bottega di selvaggina in Fleet Street, oppure passeggiavo,
arrivando magari al mercato di Covent Garden, e contemplavo gli ananassi.
Mi piaceva anche molto gironzolare intorno all’Adelphi, perché era
un luogo misteriosissimo, con quegli archi tenebrosi. Mi rivedo sbucare
una sera da uno di questi archi in una piccola osteria lungo il fiume, che
aveva uno spiazzo libero innanzi, dove certi scaricatori di carbone ballavano.
Per guardarli mi sedetti su di una panca. Chi sa che cosa avranno
pensato di me!
Ero così bambino e così piccolo, che sovente quando mi avvicinavo al
banco di qualche osteria sconosciuta a chiedere un bicchiere di birra o di
birbona, per innaffiare quel che avevo mangiato a pranzo, avevano qualche
apprensione a servirmi. Ricordo che una certa sera soffocante mi feci al
banco di un’osteria e dissi al padrone:
– Quanto viene al bicchiere la migliore… proprio la migliore… birra
che avete? – Perché era un’occasione speciale. Non so quale fosse. Magari il
mio compleanno.
– Cinque soldi – dice il padrone, – è quanto viene la Genuina Secca.
– Allora – dissi, tirando fuori il denaro, – fate il favore di spillarmi un
bicchiere di Genuina Secca e con molta schiuma.
Il padrone mi squadrò in risposta, al di sopra del banco, dalla testa
ai piedi, con uno strano sorriso in faccia; e invece di spillare la birra,
guardò dietro al divisorio e disse qualcosa alla moglie. Questa uscì col
lavoro tra le mani, e prese come lui a osservarmi. Siamo qui tutti e tre
ora, davanti ai miei occhi. Il padrone in maniche di camicia, appoggiato
all’intelaiatura della finestra; la moglie che sbircia al disopra della piccola
mezzaporta; e io che li considero alquanto confuso, di qui dal banco.
Mi fecero molte domande; come mi chiamavo, quanti anni avevo, dove
abitavo, che cosa facevo e perché ero là. A tutte le quali domande, temo
di avere inventato, per non compromettere nessuno, le risposte appropriate.
Alla fine mi spillarono la birra, quantunque sospetti che non fosse
la Genuina Secca; e la moglie del padrone, aprendo mezza porticina del
banco e chinandosi, mi restituì i quattrini e mi diede un bacio mezzo
ammirato e mezzo compassionevole, ma ben femminile e tenero, ne sono
certo.
da C. Dickens, David Copperfield, Einaudi, Torino 1993