Era una grande cantina, del tutto sproporzionata alla casa che la
sovrastava.
Una scala a chiocciola di pietra congiungeva la cantina alla cucina;
intorno alla base della scala i successivi proprietari avevano stivato la legna
da ardere, le verdure per l’inverno e le più disparate cianfrusaglie. Le
cianfrusaglie si erano gradualmente ammassate, in fondo, fino a ergersi a
testa alta come una vera e propria barricata d’inutilità. Che cosa si nascondesse dietro
quella barricata, nessuno lo sapeva o se ne preoccupava.
Per centinaia d’anni nessuno l’aveva attraversata per esplorare i neri
Meandri della cantina, dietro. In cima alle scale, a dividere la cucina dalla
cantina, c’era una massiccia porta di quercia: e anch’essa era in un certo
senso particolare, fuori luogo rispetto al resto della casa. Era una porta
strana, per un’abitazione moderna: spessa, robusta, abilmente incassata,
con grossi cardini di ferro battuto e una serratura che era degna del Castello
della Disperazione. Se una porta simile fosse servita a difendere la
casa dal mondo esterno, sarebbe stata più giustificabile: ma per dividere
una cucina dalla cantina sembrava veramente esagerata.
Fin da quando aveva avuto pochi mesi di vita, Tommy Tucker era sembrato
infelice, in cucina. Nel salotto, in sala da pranzo, ma soprattutto al piano
di sopra, si comportava come un bambino sano e normale, appena lo si
portava in cucina cominciava invece a piangere. Ma quando imparò a tenersi
in piedi non perse tempo a sfuggire dalla cucina. Non appena sua madre
gli voltava la schiena, il piccolo si arrabattava più in fretta che poteva
verso la porta che dava sulla parte anteriore della casa, la sala da pranzo e il
salotto. E una volta fuori sembrava felice, o perlomeno smetteva di piangere;
poi, non appena lo riportavano in cucina, le sue urla crescevano al punto che
i vicini finirono sinceramente per convincersi che soffrisse di coliche o
spasmi , e gli portarono più d’un giochino per distrarlo, e più d’un decotto di
salvia.
Ma solo quando il bambino imparò a parlare i Tucker poterono farsi
un’idea di ciò che lo faceva disperare a quel modo, quando era in cucina. A
lungo dovette soffrire in silenzio prima di ottenere un po’ di sollievo, ma
anche quando spiegò ai genitori di che si trattava essi furono del tutto incapaci di
capire. E non c’è da meravigliarsi, perché erano entrambi persone
che lavoravano duro, semplici per natura.
Ciò che infine impararono dal loro bambino fu questo: se la porta della
cantina era chiusa e assicurata con la pesante serratura di ferro, Tommy riusciva se non
altro a mangiare il suo pranzo in pace; se la porta era semplicemente chiusa, ma non a chiave,
lui tremava di paura ma se ne stava
quieto: ma se la porta era aperta, se anche la più piccola fessura nera rivelava che non
era perfettamente serrata il piccolino di tre anni si metteva a
urlare fino allo spasimo, soprattutto se suo padre gli rifiutava il permesso
di abbandonare la cucina.
Giocando in cucina il bambino sviluppò due interessanti abitudini: ammassava continuamente
stracci, pezzi di carta e schegge di legno contro
l’uscio di quercia per riempire lo spazio tra la base della porta e il pavimento. Ogni
volta che la signora Tucker l’apriva ci trovava sempre quelle cianfrusaglie davanti, sistemate
da suo figlio.
Questo la seccava, e più di una volta il piccolo fu sculacciato per questo comportamento,
ma il castigo non servì assolutamente a frenarlo.
Non spiegò mai perché si comportasse a quel modo; si rifiutava
di parlarne, perlomeno coi genitori, ma questo non faceva molta differenza, perché se ne
avesse parlato loro si sarebbero ancor più convinti che
c’era qualcosa che non andava nel loro bambino. Cercarono, come poterono, di far perdere
al figlio le sue strane abitudini, ma non riuscendoci decisero semplicemente di ignorarle.
O almeno, le ignorarono finché lui non ebbe sei anni e giunse il tempo
di mandarlo a scuola. A quell’epoca era un ragazzo sano e forte, più intelligente della
media dei bambini che vanno in prima elementare. Il signor
Tucker a volte era proprio fiero di lui, e il comportamento del bambino
verso la porta della cantina era l’unica incrinatura6 nell’orgoglio paterno.
Finalmente, poiché nulla serviva a farglielo modificare, i Tucker si decisero
a fare visita al medico locale. Fu un evento importante nella vita della
famiglia.
– La faccenda è questa, dottor Hawthorn – disse il signor Tucker, un po’
imbarazzato. – Il nostro Tommy è abbastanza grande per andare a scuola,
ma si comporta in maniera infantile verso la cantina di casa, e così la mia
signora e io abbiamo pensato che voi poteste dirci cosa fare. Devono essere
i nervi.
– Vi dirò cosa fare – disse il dottore. – Lui pensa che laggiù c’è qualcosa,
ma se si accorge che si sbaglia e che non c’è proprio un bel niente dimenticherà l’intera
faccenda. Finora l’avete assecondato troppo: quel che dovete fare è aprire la porta della
cantina e costringerlo a rimanere solo in cucina.
Inchiodatela, se necessario, così che non possa chiuderla. Lasciatelo solo per un’ora, poi
tornate e sorridetegli, e mostrategli quanto era sciocco ad aver paura di una cantina vuota. Vi
darò qualche tonico8 per il sistema nervoso e la circolazione: questo aiuterà, ma la cosa
importante è dimostrargli che non c’è nulla da temere.
Quello stesso giorno il dottor Hawthorn cenò con un vecchio compagno
di studi, che si era specializzato in psichiatria ed era particolarmente
interessato ai bambini. Hawthorn raccontò a Johnson, questo era il suo nome, del caso che
gli era capitato, e gli chiese un’opinione. Johnson aggrottò la fronte.
– I bambini sono strani, Hawthorn. Sono un po’ come i cani: il loro
sistema nervoso sembra più acuto di quello degli adulti. Be’, questo ragazzo, Tucker,
potrebbe essere particolarmente acuto. Potrebbe rendersi
conto che nella cantina esiste qualcosa che i suoi genitori non sono in
grado di percepire. Deve esserci un fondamento nelle sue paure. Dammi
l’indirizzo, domani farò un giro da quelle parti e vedrò di parlare con lui.
– Che ne pensi del consiglio che ho dato loro?
– Spiacente, vecchio mio, ma credo proprio che tu abbia combinato un
pasticcio. Se fossi in te mi fermerei lì, tornando a casa, per accertarmi che non lo
seguano davvero. Il bambino potrebbe spaventarsi terribilmente.
Capisci, per lui c’è veramente qualcosa laggiù.
Il dottor Hawthorn si preoccupò talmente che decise di seguire il consiglio
dell’amico. Era una notte fredda, nebbiosa, e il medico gelava, vagando
per la strada, ma infine arrivò alla casa dei Tucker. Si ricordò allora di esserci
già stato una volta, tanto tempo prima, quando il piccolo Tommy era venuto
al mondo. C’era una luce nella finestra anteriore, e in un attimo il signor
Tucker fu alla porta.
– Sono venuto a vedere Tommy – disse il dottore.
– È solo in cucina – replicò il padre.
– Ha urlato, ma solo una volta, e dopo è rimasto quieto – singhiozzò la
signora Tucker.
– Se l’avessi lasciata fare a modo suo lei avrebbe aperto la porta, ma io
le ho detto: “Mamma, è venuto il momento di farne un uomo, del nostro
Tommy”. E suppongo che adesso si sia reso conto che non c’era niente da
temere. Be’, l’ora è passata. Forza, andiamo a prenderlo e portiamolo a
letto.
– Dev’essere stato molto brutto, per il ragazzo – sussurrò la signora Tucker.
Portando una candela l’uomo fece strada alla donna e al dottore, e finalmente aprì la
porta della cucina. La stanza era scura.
– La lampada è finita – disse l’uomo. – Aspettate, l’accendo.
– Tommy! Tommy! – gridò la signora Tucker.
Ma fu il dottore a precipitarsi là dove una forma bianca giaceva sul pavimento.
A fatica chiese che gli facessero luce; poi, tremando, esaminò ciò che
restava del bambino. Sconvolto guardò lo spazio scuro, nella cantina. Infine
si voltò verso Tucker e sua moglie:
– Tommy… Tommy è stato ferito. Penso che sia morto – balbettò.
La madre si chinò sul pavimento e raccolse la cosa fatta a pezzi, mutilata,
che solo poco prima era stata suo figlio.
Tucker prese il martello, estrasse i chiodi e chiuse la porta. Fece scattare
la chiave e poi piazzò un grosso chiodo per rinforzare la serratura. Alla fine
mise una mano sulla spalla del medico e la scosse.
– Che cosa l’ha ucciso, dottore? Che cosa l’ha ucciso? – gridò.
Hawthorn lo guardò con coraggio, benché la paura gli serrasse la gola.
– Come faccio a saperlo, Tucker? – replicò. – Come faccio? Non mi avete
detto che non c’era niente, là dentro, in quella cantina?
adattato da D.H. Keller, La cosa in cantina,
in Horroriana, A. Mondadori, Milano 1979