La proposta di questo brano è finalizzata a mettere in luce da una parte la
pericolosità di certi ambienti nei quali l’obiettivo dei soldi è superiore a qualsiasi valore e
scrupolo di tipo morale, dall’altra anche la falsità di una convinzione purtroppo tuttora
diffusa fra i giovani, vale a dire che vi siano droghe che non fanno male e che, pertanto,
possono essere assunte e vendute senza particolari problemi. La realtà è assai diversa; la
nostra salute psicofisica va difesa anche grazie al consapevole rifiuto di tutte le sostanze
(stupefacenti, superalcolici, fumo …) che progressivamente la intaccano e la compromettono.
Era andata così. Un sabato pomeriggio stavo sotto i portici, al Viale, con altri
due o tre, e ci rompevamo. Guardavamo la pioggia che veniva giù fitta
fitta, le pozzanghere in mezzo alla strada, i palazzi gonfi e bagnati e non sapevamo cosa
fare, se non prendere a calci i sassi. Ogni tanto uno diceva
qualcosa e gli altri neanche gli rispondevano.
Svacco totale, insomma, quando non capisci con chi te la devi prendere
se va così, se con te o con qualcun altro.
A casa meglio che non mi facevo vedere. Probabilmente c’era mio padre
seduto nel tinello coi pantaloni del pigiama, a smaltire gli aperitivi del mattino,
e a ruminare sulla sua Cassa Integrazione. Diventava cattivo in quei
momenti ed era meglio lasciarlo stare.
Come se poi avesse perso chissà che. Dico io: era un posto dove ti mangiavano i polmoni
coi solventi delle vernici per quattro lire a fine mese. Un posto da fessi. Che uno prima se ne
va, meglio è. Mica è vita alzarsi alle sei del mattino e fare i turni e prendere ordini da un
capo e tornare a casa che una volta respiri giallo e l’altra verde.
Ma a sentire lui avrei dovuto fare anch’io quella vita. Un lavoro onesto,
secondo lui. Un lavoro da scemi, secondo me, e anche gli altri ragazzi la pensavano così.
Preferivamo aspettare la nostra occasione.
Quando un anno prima lo avevano messo in C.I. sembrava che gli era
crollato il mondo addosso. Gli mancavano la fabbrica di vernici e quel lavoro
da schiavo. Io questa cosa non l’ho mai capita.
Quel che capivo è che soldi già ce n’erano pochi prima, adesso per niente.
Così me ne stavo sotto i portici senza neanche gli spiccioli per le sigarette
e senza sapere dove andare e cosa fare, perché ci vogliono soldi per fare le
cose, non si scappa.
Maristella quel pomeriggio non veniva, non ricordo perché. Eravamo
stati al bar, poi a casa di uno a guardare la tivù cambiando canale ogni secondo e facendo
a gomitate, poi in giro, poi si era messo a piovere e non
avrebbe smesso mai più e dentro mi sentivo una cosa vuota e amara, cattiva.
Così arrivano in macchina due tipi che conosco di vista, due del giro dei
grandi, e mi fanno cenno di salire. Si fermano al riparo sotto il ponte della
ferrovia, con l’acqua che scroscia da tutte le parti, mi offrono da fumare e mi
propongono di vendere quelle pastigliette rosa nelle discoteche. Vanno via
come il pane, dicono, e non è difficile.
Ero un pivello, allora, e pensavo che era arrivata la mia occasione, finalmente, e che se
lo proponevano a me voleva dire che mi stimavano.
– Lascia fare, dico, – ci penso io.
– Attento, – mi dicono, – qui girano tanti soldi e c’è dietro gente di quella
tosta. Prima regola: non pensare di fare il furbo, se no la paghi.
– Mi conoscete, – dico, – sapete che vi potete fidare.
Comincio subito. Confezioni da cento e se le finivo c’era sempre una
macchina di appoggio nella zona dove operavo pronta a rifornirmi di nuovo.
Organizzazione seria.
Comincio dal Display, una disco dietro piazzale Loreto, dall’altra parte
della città. Non un granché come ambiente, ma ne andavano via anche duecento in una notte,
specie il sabato. Le prime volte, naturalmente, mi ero
dovuto sbattere mica male, muovermi in continuazione, parlare, farmi conoscere, perché –
mi avevano spiegato – è importante entrare in un rapporto di fiducia col cliente. Si deve fidare
di te, se no mica compra. E poi, se è contento, ti porta gli amici. Insomma, era un lavoro
serio.
Infatti, dopo un po’, bastava che entravo e mi facevo vedere e mi venivano
a cercare loro. Liscio come l’olio.
Mi piaceva. A casa avevo detto che lavoravo come addetto alle public relations nella
discoteca di un amico. Be’, in un certo senso era vero. Uscivo verso le undici, undici e mezza,
in giacca e cravatta perché è importante dare
una buona impressione, guai se ti prendono per un tamarro qualunque.
Arrivavo dopo mezzanotte, quando la pista comincia ad animarsi, regalavo
una confezione da cinque al buttafuori, entravo, subito la musica in testa,
qualche saluto in giro, una sosta al bar e osservavo il movimento.
Insomma, un divertimento più che un lavoro. Un sacco di soldi. E di ragazze,
anche.
Le prime volte avevo detto a Maristella: – Vieni anche tu. Che cavolo, ne
approfittiamo per ballare e divertirci gratis.
Ma dopo un po’ lei aveva cominciato a rognare, come al solito, che
quella cosa non le piaceva.
– Ma perché – chiedevo io.
Mi ricordo una sera, eravamo da McD a farci un frappé alla vaniglia. Lei
era carina, proprio, anche se vestiva un po’ troppo seria per i miei gusti.
Camicetta, gonna, ma da un po’ di tempo aveva cambiato look. L’avevo conosciuta che era
una selvaggia, adesso quasi neanche si truccava. Ma le ragazze – si sa – queste cose le fanno.
Io ero in vena di coccole e smancerie. Mi sentivo proprio bene: avevo
soldi, una posizione, una ragazza che tutti si giravano a guardarla. Un pascià.
Lei era un po’ rigida, pensierosa. Carattere, pensavo io. Tosta è sempre
stata tosta, forse anche per questo mi piace.
– Insomma, – fa a un certo punto, – non mi va che spacci.
Qui mi incavolo.
– Io mica spaccio. Sei scema. Cosa ti salta in testa? Questa mica è droga.
Sono pasticche. Ne prendi una, ti manda su di giri per una notte, e basta. Le
prendono tutti. Le hai prese anche tu.
– Sì, qualche volta.
Cerco di farla ragionare: – Prendiamo il fumo. È come il fumo. Non è
una droga, non fa niente. Tutti fumano. Ti pare che io e te siamo dei drogati?
– No.
– Vedì? È lo stesso.
Lei giocherella con la cannuccia del frappé.
– E poi è pericoloso. Se ti prendono?
– A me? Figurati. E poi la pula cerca gli spacciatori, quelli che vendono
roba pesante. E fa bene a prenderli, quelli. Io che c’entro?
È preoccupata per me, come giustamente deve fare una donna per il suo
uomo. Mi intenerisco. Le faccio una carezza attraverso il tavolo.
– Tranquilla, – le dico.
Comunque, da quella volta non mi ha più accompagnato al lavoro.
Vabbe’, mica mi sego le vene per questo. Poi, più o meno nello stesso periodo, mi
dice che l’hanno presa mezza giornata in un negozio del centro. Confezioni
femminili.
– Quanto ti danno? – chiedo.
Me lo dice e mi viene da ridere.
– Io li faccio in una settimana.
– Bravo te.
Poi che si è iscritta al secondo anno di ragioneria alle serali. Sbalordisco.
– Ma perché? – voglio sapere.
– Per farmi una posizione – dice.
– Cosa vuol dire?
Mi guarda in modo strano: – Leo, – mi fa – io non voglio che facciamo
sempre questa vita.
Non capisco: – Cosa c’è che non va? Stiamo bene, ci divertiamo. Cos’altro
vuoi?
– Non lo so.
Avrei dovuto capire che qualcosa non andava. Ma mi avevano detto che con le donne c’è
sempre qualcosa che non va, sono fatte così. E con tutti quegli impegni ci vedevamo anche
pochino, ormai. Ma non avevo tempo per pensarci. Stavo andando a mille e non mi potevo fermare
un momento.
Quelli per cui lavoravo mi dicono che sono contenti di me e che è venuto
il momento di allargare il giro e di cercare di farsi largo nelle sale del
centro, che lì le pasticche si vendono anche al doppio. Altra gente, altra
categoria.
– Occhei, – rispondo, – no problem.
Raddoppio la notte, mi faccio due tre discoteche fino all’alba, di quelle
alla moda, con le fotomodelle. Qui è più dura, mi trattano dall’alto in basso
e poi più che le pastiglie vogliono la neve e io la neve non ce l’ho e penso
che dovrei cambiare giro, rende anche molto di più, ma è difficile entrare in
quel giro lì.
C’è un locale sui bastioni frequentato quasi solo da sudamericani. Peruviani,
colombiani, gente così. Senti parlare più spagnolo che italiano. Subito,
la prima sera, dopo neanche un’ora mi si mettono di fianco due tipi, bassi
bassi, larghi larghi, vestiti che sembra un film.
– Fila, – mi dicono.
Ho capito. Non ci torno più. In un altro paio di locali, invece, ce la faccio.
Va benone. Resto in orbita tutta la notte. Ogni tanto prendo anch’io un paio
di pasticche per tenermi su. Faccio un sacco di soldi, mi compro la moto e
mi sento un dio.
Spendo per vestirmi, spendo in ristoranti alla moda e in dischi e in tutto
quello che mi va. Faccio regali a Maristella che non si commuove più che
tanto.
Peggio per lei, penso.
È allora che mi viene il vezzo della mazza. L’avevo visto in un film, quelli
che andavano in giro con la tenuta da giocatori di baseball e m’era sembrata
una gran trovata.
Vado in un negozio di articoli sportivi e dico alla commessa: – Voglio la
migliore. – Lei mi guarda con due occhi così.
Le dico: – Vuoi venire all’Amnesy sabato sera? Il buttafuori è amico mio.
Ridacchia. Dice: – Forse. – Alla grande.
Con due cinghie di cuoio appendo la mazza sul fianco della moto.
Era una specie di segno di riconoscimento, una griffe. Dicevano tutti: – È la
moto di Leo. – Al Viale ero qualcuno. Ma non pensavo di doverla usare, no.
Poi, una notte prima di Natale, sono appena uscito da un locale nuovo, in
corso Garibaldi, ci sarò andato solo un paio di volte ma già promette bene. Fa
un freddo sottozero ma non lo sento. Aria pulita, testa sgombra. Forse nevica
e stanno per arrivare le feste. Saranno le quattro, le cinque del mattino e c’è
ancora buio con tutte le lucette dei festoni che brillano attraverso la strada e le
decorazioni nelle vetrine dei negozi. Sono contento, sto proprio bene.
Ho su le cuffiette del CD portatile, un vecchio Bob Marley che mi rimbomba
il cuore. Forse per questo non li sento arrivare. Me ne ritrovo addosso tre e prima di
accorgermene sono in un angolo con le spalle al muro.
Mi fanno: – Questa è zona nostra, tu cosa vuoi, cretino.
Capisco che è una cosa seria, questi hanno l’aria tosta, mica sono pischelli.
Mi fanno: – Tu adesso ci dai la roba e i soldi e la prossima volta che ti fai
vedere ti rompiamo le gambe.
Mica ho scelta. Parto di lato, una spallata a quello più vicino, corro sotto
i portici, mi si sono sfilate le cuffie e sento alle spalle il tonfo degli anfibi che
mi inseguono. La moto è a cinquanta metri più in là e non arrivo mai.
Corro e intanto cerco nella tasca del bomber le chiavi e non le trovo. Io
corro forte, ma loro di più. Ce li ho addosso.
Penso: non me la cavo.
Arrivo in scivolata, sgancio le cinghie e impugno la mazza, mi giro e il
primo quasi mi arriva addosso per l’impeto e allora mi chino, faccio ruotare
il legno e lo prendo al ginocchio che fa crack – un rumore secco e netto
nella notte – e va giù urlando.
Aspetto gli altri due con la mazza bilanciata dietro la testa, come i battitori
nei film americani.
Gli urlo: – Venite avanti, adesso.
Ho paura, ma non devo farglielo vedere.
Si fermano incerti. Quello a terra continua a urlare. Forse lo sentono e arriva
qualcuno e me la sfango. Figurati se qualcuno ha il coraggio di farsi vedere.
Muovo i piedi, uno dei due mi fa una finta, vado a vuoto con la mazza e
mi sbilancio. L’altro, quello più grosso, mi colpisce e ha qualcosa sotto il
guanto di pelle nera perché sono a terra e c’è sangue dappertutto e poi sento vagamente
che mi prendono a scarpate e che rovesciano la moto e cercano di darle fuoco. Sento odore di
benzina. Cerco di allontanarmi in qualche modo trascinandomi e non ce la faccio e non capisco
dove sono. Mi sembra che sia passato un attimo.
Quando arriva la polizia mi trova in tasca cinquanta pastiglie di Ecstasy, tre milioni in
contanti e anche del fumo che non mi ricordavo di avere e così vado al Minorile – sette mesi –
con il naso rotto e l’orgoglio a pezzi e dopo quindici giorni mi arriva quell’unica lettera di
Maristella che dice: sei il solito stronzo, e questa volta ha ragione lei.
da F. D’Adamo, Mille pezzi al giorno,
Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste) 2000