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IL VECCHIO E IL TIGRILLO


Dopo avere bevuto varie tazze di caffè nero, si dedicò ai preparativi. Sciolse alcune candele e immerse le cartucce nel grasso liquefatto. Subito le fece sgocciolare, in modo che restassero ricoperte solo da una sottile pellicola. Così si sarebbero conservate asciutte anche se fossero cadute in acqua.
Il resto del grasso fuso se lo applicò sulla fronte, coprendo in particolare le sopracciglia così da formare una specie di visiera. In quel modo l’acqua non gli avrebbe offuscato la vista nel caso in cui si fosse trovato ad affrontare l’animale in una radura.
Alla fine controllò il filo del machete e si addentrò nella selva in cerca di tracce.
Cominciò avanzando lungo un raggio di soli duecentocinquanta passi dalla capanna verso oriente, seguendo le impronte trovate il giorno prima.
«Bene, bestiaccia, ormai so come ti muovi. Ora devo scoprire dove sei».
Parlò rivolto alla foresta ricevendo come unica risposta il rumore della pioggia.
Ampliando il raggio di azione, si allontanò dalla capanna di Miranda e raggiunse una lieve altura, che nonostante la pioggia gli permetteva di osservare agevolmente tutta la zona. La vegetazione si faceva bassa e fitta, in contrasto con gli alberi alti che lo proteggevano da un attacco raso terra. Decise di abbandonare la collinetta avanzando in linea retta verso ponente, in direzione del fiume Yacuambi, che scorreva non molto lontano.
Poco prima di mezzogiorno, cessò di piovere e si allarmò. Doveva assolutamente continuare, altrimenti sarebbe cominciata l’evaporazione e la selva sarebbe stata sommersa da una nebbia densa che gli avrebbe impedito di respirare e di vedere oltre la punta del suo naso.
All’improvviso milioni di aghi argentati perforarono il soffitto della foresta illuminando intensamente il punto dove cadevano. Era proprio sotto un buco tra le nuvole, abbagliato dai raggi del sole che si riflettevano sopra le piante bagnate. Si sfregò gli occhi lanciando maledizioni, e circondato da centinaia di effimeri arcobaleni si affrettò
ad allontanarsi prima che cominciasse la temuta evaporazione. Allora la vide.
Messo all’erta da un rumore di acqua che cadeva all’improvviso, si voltò e la scorse che si spostava verso sud, a una cinquantina di metri di distanza.
Si muoveva lentamente, con le fauci aperte, frustandosi i fianchi con la coda. Calcolò che dalla testa alla coda misurava due metri buoni, e che in piedi sulle zampe posteriori superava la statura di un cane da pastore.
L’animale scomparve dietro un arbusto, ma si fece rivedere quasi immediatamente.
Questa volta si muoveva verso sud.
«Questo trucco lo conosco. Se mi vuoi qui, va bene, ci rimango. Nella nube di vapore non vedrai più nulla nemmeno tu», le gridò, e si protesse le spalle appoggiando la schiena a un tronco.
La pausa della pioggia richiamò immediatamente le zanzare. Attaccarono cercando labbra, palpebre, graffi. I minuscoli insetti si infilavano negli orifizi nasali, nelle orecchie, tra i capelli. Rapidamente si mise in bocca un sigaro, lo masticò per spappolarlo, e si applicò l’impasto di saliva sul volto e sulle braccia.
Per fortuna la pausa durò poco e riprese a piovere con rinnovata intensità.
Subito tornò la calma, si sentiva solo il rumore dell’acqua che penetrava tra il fogliame.
Passarono le ore, e quando la luce cominciò a diminuire seppe che il gioco dell’animale non consisteva nello spingerlo verso oriente. Lo voleva lì, in quel punto, e aspettava l’oscurità per attaccarlo.
Il vecchio calcolò che disponeva di un’ora di luce, in quell’intervallo di tempo doveva andarsene, raggiungere la riva del fiume e cercare un luogo sicuro.
Aspettò che la femmina finisse uno dei suoi spostamenti verso sud e iniziasse il giro che la riportava al punto di partenza. Allora, correndo a tutta velocità, si lanciò verso il fiume.
Arrivò a un vecchio appezzamento disboscato che gli permise di guadagnare tempo, e lo attraversò con la doppietta stretta al petto. Con un po’ di fortuna avrebbe raggiunto la riva del fiume prima che la femmina scoprisse la sua manovra di evasione. Sapeva che non lontano da lì avrebbe trovato un accampamento abbandonato di cercatori d’oro, dove avrebbe potuto rifugiarsi.
Si rallegrò quando sentì il rumore della piena.
Il fiume era vicino. Per raggiungere la riva gli restava soltanto da scendere un pendio di una quindicina di metri coperto di felci, quando l’animale attaccò.
La femmina doveva essersi mossa con tale velocità e cautela, scoprendo il suo tentativo di fuga, che era riuscita a correre parallela al vecchio senza farsi notare, fino a piazzarglisi a un lato.
Ricevette lo spintone affibbiatogli con le zampe anteriori e cadde ruzzolando giù dal pendio.
Stordito, si accucciò brandendo il machete con tutte e due le mani, e aspettò l’attacco finale. In alto, sul bordo del declivio, la femmina muoveva la coda freneticamente.
Le piccole orecchie vibravano captando tutti i rumori della foresta, ma non attaccava.
Sorpreso, il vecchio si mosse lentamente fino a recuperare la doppietta.
«Perché non attacchi? A che gioco stai giocando?».
Sollevò i cani della doppietta e si accostò l’arma al volto. A quella distanza non poteva fallire. In alto la femmina non gli staccava gli occhi di dosso. All’improvviso ruggì, triste e stanca, e si lasciò cadere sulle zampe.
La debole risposta del maschio gli arrivò da molto vicino, e non fece fatica a trovarlo.
Era più piccolo della femmina, e stava sdraiato al riparo di un tronco vuoto. Era ridotto pelle e ossa e aveva una coscia quasi strappata dal corpo da un colpo di fucile. L’animale respirava a stento, e l’agonia sembrava dolorosissima.
«Volevi questo? Che gli dessi il colpo di grazia?» gridò il vecchio verso l’altura, e la femmina si nascose tra le piante. Si avvicinò al maschio ferito e gli accarezzò la testa.
L’animale alzò appena una palpebra. Esaminando con attenzione la ferita vide che
cominciavano a mangiarselo le formiche.
Appoggiò le due canne del fucile al petto dell’animale.
«Mi dispiace, compagno. Quel maledetto gringo ci ha fottuto la vita a tutti», e sparò.
Non vedeva la femmina, ma la indovinava in alto, nascosta, in preda a lamenti forse simili a quelli umani.
Ricaricò l’arma e si avviò tranquillamente verso la riva desiderata. Si era allontanato di un centinaio di metri quando vide la femmina scendere dal maschio morto.
Arrivò alla capanna abbandonata dai cercatori d’oro che era quasi buio, e scoprì che il temporale aveva abbattuto la costruzione di canne.
Si dette rapidamente un’occhiata intorno e si rallegrò di trovare una canoa dal ventre lacerato rovesciata sulla riva.
Trovò anche un sacco con delle fette di banana secche, se ne riempì le tasche e si infilò sotto il ventre della canoa. Le pietre del suolo erano asciutte. Sospirò sollevato, sdraiandosi sulla schiena con le gambe allungate, al sicuro.
«Abbiamo avuto fortuna, Antonio José Bolívar. Con quella caduta c’era da rompersi l’osso del collo. È stata una benedizione quel materasso di felci».
Sistemò il machete al suo fianco. Il ventre della canoa offriva un’altezza sufficiente per mettersi gattoni se desiderava avanzare o retrocedere.
L’imbarcazione misurava circa nove metri di lunghezza e aveva vari squarci prodotti dalle pietre affilate delle rapide. Messosi comodo, mangiò qualche pugno di banane secche e accese un sigaro, che fumò con vero diletto. Era stanchissimo e non tardò ad addormentarsi.
Così passarono lunghe ore dense, finché un debole chiarore filtrò dentro il rifugio.
Lui, sotto, controllava disteso sulla schiena la carica della doppietta, mentre la femmina, sopra, continuava la sua passeggiata instancabile, sempre più breve e nervosa.
Quando sentì scendere l’animale, dalla luce dedusse che era quasi mezzogiorno. Attento, aspettò la sua nuova mossa, finché un rumore su un fianco lo avvertì che la femmina aveva iniziato a scavare tra le pietre su cui poggiava l’imbarcazione.
Visto che lui non rispondeva alla sfida, la femmina aveva deciso di entrare nel suo nascondiglio.
Trascinandosi sulla schiena, indietreggiò fino all’altro estremo della canoa, giusto in tempo per evitare gli artigli, comparsi lanciando colpi alla cieca. Sollevò il capo con la doppietta attaccata al petto e sparò.
Poté vedere il sangue che schizzava dalla zampa dell’animale, e contemporaneamente un intenso dolore al piede destro gli indicò che aveva calcolato male l’apertura delle gambe, e che vari pallini gli erano entrati nel collo del piede.
Erano pari. Feriti tutti e due.
La sentì allontanarsi, e con l’aiuto del machete sollevò un po’ la canoa, lo spazio sufficiente per vederla, a un centinaio di metri, che si leccava la zampa ferita.
Allora ricaricò l’arma e con una spinta rovesciò l’imbarcazione.
Quando si alzò in piedi la ferita gli produsse un dolore terribile, e l’animale, sorpreso, si acquattò sulle pietre calcolando l’attacco.
«Sono qui. Finiamo questo maledetto gioco una volta per tutte».
Si sentì gridare con una voce sconosciuta, senza essere sicuro di averlo fatto in shuar o in spagnolo, e la vide correre sulla riva come una saetta maculata, senza fare caso alla zampa ferita.
Il vecchio si accucciò, e l’animale, quando fu giunto a circa cinque metri da lui, spiccò un salto prodigioso mostrando gli artigli e le zanne.
Una forza sconosciuta lo obbligò ad aspettare che la femmina raggiungesse l’apice del suo volo. Allora premette i grilletti e l’animale si fermò a mezz’aria, piegò il corpo di lato e cadde pesantemente con il petto squarciato dalla doppia scarica di pallini.
Antonio José Bolívar Proaño si alzò lentamente in piedi. Si avvicinò all’animale morto e rabbrividì vedendo come l’avevano deturpato i due colpi.
Il petto era una gigantesca ecchimosi e dalla schiena spuntavano resti di budella e di polmoni spappolati.
Era più grande di quello che aveva pensato vedendola la prima volta.
Benché fosse magra, era un animale superbo, bellissimo, un capolavoro di vigore impossibile da riprodurre anche solo col pensiero.
Il vecchio la accarezzò, ignorando il dolore del piede ferito, e pianse di vergogna, sentendosi indegno, umiliato, in nessun caso vincitore di quella battaglia.
Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e dalla pioggia, spinse il corpo dell’animale fino alla riva del fiume, e le acque se lo portarono via, verso l’interno della foresta, fino ai territori mai profanati dall’uomo bianco, fino all’incontro col Rio delle Amazzoni, verso le rapide dove sarebbe stato squarciato da pugnali di pietra, in salvo per sempre
dalle bestie indegne.
Gettò subito via con furia la doppietta e la vide affondare senza gloria.
Bestia di metallo odiata da tutte le creature.

(da L. Sepúlveda, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, Parma, Guanda, 2004, riduzione)
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