Il vassoio in mezzo a noi trabocca di pezzi di pollo con la pelle gialla spessa
e grassa. Testa, zampe, viscere: non si butta niente. Per il caldo umido
soffocante che opprime questa regione per gran parte dell’anno, nonostante
il ventilatore, in pochi minuti il pollo brulica di mosche. Impossibile sottrarsi al
banchetto, dopo il privilegio che mi è stato concesso di penetrare in questo luogo. Al padrone
di casa gli occhi luccicano golosi mentre afferra cosce, ali e zampe con le sue manone unte e mi
riempie il piatto per cortesia. Mastica rumorosamente, sputa ossicini in mezzo al tavolo e
intanto descrive la sua ricetta favorita: questo pollo è lesso ma, prima di addentarlo, ogni
pezzo deve essere affogato a lungo nella scodella comune di olio denso allo zenzero che sta al
centro del tavolo. – La febbre aviaria non spaventa i miei consumatori – biascica tra un morso e
l’altro. – Neppure i clienti di Hong Kong, che sono i più schizzinosi.
Quando le loro autorità sanitarie bloccano le importazioni di pollame dalla Cina
continentale, quelli prendono il treno e vanno fino a Shenzhe a fare la spesa, tanto gli
piacciono i nostri polli. – Il signor Tan Ju Tian che mi ospita nella sua mensa aziendale sa di
cosa parla. Dirige la Kwangfeng, un maxiallevamento di polli a Baiyun, periferia di Canton.
Trenta milioni di polli escono da qui ogni anno, vivi o morti. Venduti sulle bancarelle in Cina
o esportati a Hong Kong e nel mondo.
Questa è la provincia meridionale del Guangdong, la più ricca e una delle
più popolose della Cina con 83 milioni di abitanti. Secondo gli archeologi
è proprio in questa zona del pianeta che 4500 anni fa l’uomo addomesticò
per la prima volta un bipede pennuto, l’anatra, per allevarla. Secondo i biologi, questa
culla primordiale dell’agricoltura cinese è anche il più antico brodo di coltura delle epidemie3
del pianeta, soprattutto influenze. Da quando
la medicina moderna è stata in grado di ricostruire i percorsi dei virus, le origini di
gran parte delle malattie che hanno devastato il mondo sono state
individuate qui nel fertile Guangdong, sotto questa umidità quasi tropicale,
nell’affollamento e nella promiscuità tra uomini e animali nelle fattorie e nei mercati,
nelle metropoli e nei porti. Da qui ebbe inizio nel 1894 l’ultima
grande epidemia di peste bubbonica che dall’India alla California seminò 12 milioni di
morti. Forse qui nacque il primo virus della “spagnola”, che fece più vittime della prima guerra
mondiale. Con certezza si sa che partirono dal Guangdong le due ultime pandemie del dopoguerra,
le grandi influenze del 1957 e del 1968 (tre milioni di morti). Qui sono apparse per la prima
volta sia la Sars nel 2002, sia la febbre aviaria, che è dilagata nel Sudest asiatico e ha
raggiunto l’Europa.
Prima che il signor Tan mi aprisse i cancelli della Kwangfeng, non immaginavo che
esistessero così tanti polli ammassati in un unico luogo sulla
terra. Soltanto una nazione con un miliardo e 300 milioni di esseri umani, e con
addensamenti urbani come Pechino e Shanghai, poteva concepire degli allevamenti di queste
dimensioni. Kwangfeng è la megalopoli delle galline: in mezzo alla campagna sorge come una città
satellite con schiere di caseggiati popolari. Sono in realtà file sterminate di grandi hangar
con le finestre a rete. Ogni capannone contiene lunghi corridoi di gabbie allineate con le
mangiatoie. E dentro ogni gabbia sono pigiate sterminate folle di galline, galletti e pulcini,
avvolti nell’insopportabile calore umido, circondati dalle mosche, immersi in un fetore
onnipresente di escrementi. Il pigolio è meno assordante del previsto: per evitare che gli
uccelli, resi aggressivi dalla convivenza forzata nelle gabbie, si feriscano tra loro, vengono
loro tagliati becchi e creste e sono quasi muti. In mezzo ai capannoni si aggirano seminudi e in
mutande 700 contadini-operai. Vivono in simbiosi con le
galline, le loro casupole con la biancheria stesa fuori ad asciugare si distinguono a
malapena dagli hangar degli animali. Un palazzone al centro della megafattoria contiene la
catena di montaggio del macello. Appesi ai ganci che penzolano da una grande giostra meccanica,
i polli sfilano davanti a file di operai che a mani nude li eviscerano delle interiora, poi con
coltellacci
e punteruoli tagliano e incidono. Le interiora rotolano nell’acqua di un fiumiciattolo
artificiale che le convoglia lungo la catena di montaggio.
Ventimila polli al giorno escono cellofanati e impacchettati. – Questi, domani sono già
nei supermercati a Hong Kong – gongola il signor Tan.
Ma è solo una parte del pollame a uscire da qui defunto. – Noi cantonesi
siamo degli intenditori, la gallina preferiamo comprarla viva al mercato, portarcela a
casa e ucciderla con le nostre mani solo all’ultimo momento, prima di metterla in pentola. Il
sapore si conserva meglio. – Dall’allevamento
di Kwangfeng è un viavai di camion che caricano il pollame vivo. Schiacciate
alla rinfusa dentro gabbie metalliche o compresse a forza in ceste di plastica, le galline
riescono a stento a muoversi e a respirare. I Tir stracarichi partono verso l’autostrada e i
mercati generali di Canton e Shenzhen.
La produttività è alta, i profitti pure: questa marea di galline frutta 60 milioni di euro
all’anno, per ispezionare la proprietà Tan Ju Tian gira su un fuoristrada Mercedes. I medici
considerano con sospetto questi allevamenti intensivi, potenziali fabbriche di infezioni: la
densità di animali facilita la trasmissione delle malattie, l’aggiunta di antibiotici nei
mangimi industriali crea assuefazione e fa nascere nuovi virus più resistenti. Eppure la
Kwangfeng
è un’azienda modello. Le condizioni igieniche sono molto migliori che nelle
piccole fattorie contadine. Non a caso è alla Kwangfeng che sono stato “ammesso” dopo
settimane di trattative con le autorità del Guangdong. Il governo cinese, sotto accusa nel 2003
perché censurò le notizie sulla Sars per almeno sei mesi, non ama che i giornalisti stranieri
vengano a curiosare sulla situazione sanitaria.
Malgrado le loro precauzioni, basta lasciarsi alle spalle i cancelli della Kwangfeng e
imboccare l’autostrada Canton-Qingyuan per vedere un altro
tipo di allevamenti. Proprio in parallelo allautostrada stessa, a pochi metri
dal traffico dei Tir, tra fabbriche, officine e cantieri si alternano campicelli di
contadini con dei bacini artificiali pieni di anatre e oche imprigionate da reti. Certe casupole
contadine poggiano su palafitte nell’acqua. Altri piccoli allevatori hanno casa su fazzoletti di
terra dove razzolano galline e maiali. Inquinamento delle fabbriche, detriti e discariche di
immondizia, fumi tossici: il Guangdong è la fabbrica del pianeta, ma la sua nuova
industrializzazione
convive con la vecchia agricoltura dove uomini e uccelli, cani e maiali si contendono una
terra sempre più stretta. Non c’è più un pezzo di suolo libero da queste parti, sicché durante
le grandi migrazioni che sorvolano il Guangdong, fra la Siberia e l’Indonesia, gli uccelli
selvatici sono costretti a posarsi negli allevamenti, a contatto con galline e anatre, a
scambiarsi
malattie da trasportare lontano.
Seguo in autostrada per cinque ore il viaggio dei polli sui Tir fino alla frontiera.
L’ultima tappa in territorio cinese è Shenzhen, il grande porto rivale di Hong Kong sul
Delta delle Perle, da dove partono le navi portacontainer.
Vent’anni fa Shenzhen era un villaggio di pescatori, non esisteva sulle carte
geografiche. Adesso è una città più grande di Roma, Milano e Napoli messe
insieme, con selve di grattacieli, un aeroporto internazionale e un traffico
portuale superiore a Los Angeles. Una bolgia infernale di Tir paralizza la
sua tangenziale a tutte le ore del giorno e della notte. Ma nelle viscere di
Shenzhen i mercati generali offrono ancora lo spettacolo di una Cina antica.
Sono un’altra città sotterranea, estesa per qualche ettaro nei seminterrati dei
grattacieli, che palpita di una vita febbrile, eccitata, tra sporcizie organiche e
odori fortissimi, come se lì sotto si stesse agitando e fermentando tutto ciò
che di commestibile si produce in Cina: pesci, carni macellate e sangue rappreso, frutta e
verdure tropicali, spezie ed erbe medicinali.
Nella zona degli animali vivi, ritrovo a migliaia i polli, spremuti nelle loro gabbie,
sbattuti assieme a oche e anatre starnazzanti. Il pollo incellofanato al
supermercato costa 14 yuan (1,4 euro) al chilo, ma la gente si accalca qui e
paga fino a 26 yuan al chilo per portarsi a casa il pennuto vivo. Lunghe file
di clienti si soffermano a guardarli uno per uno, li tastano da tutte le parti
prima di scegliere. I venditori afferrano le bestie dalle gabbie, stringono le
zampe e le passano agli acquirenti a gran velocità. Uomini, polli e banconote
sincrociano in una chiassosa confusione. Per un cinese questa è un’immagine di
benessere. – Si ricordi – mi ha detto il signor Tan – che vent’anni fa i miei contadini
guadagnavano 300 yuan al mese (30 euro) e il pollo se lo sognavano. Oggi mangiano pollo anche
tutte le sere. Per i cinesi il fast food preferito, prima ancora di McDonalds, è Kentucky
Fried Chicken, la catena del pollo fritto all’americana. Il mio allevamento le sembra grande coi
suoi 30 milioni di polli all’anno? In tutto il Guangdong tra galline, anatre e
oche il consumo è di un miliardo all’anno.
Se questa zona da tempi immemorabili è il laboratorio d’incubazione delle grandi epidemie
planetarie, oggi il boom economico ha ingigantito il pericolo. Per sfamare una popolazione
sempre più numerosa, accorsa a lavorare nelle metropoli, si è creata una concentrazione senza
precedenti di masse umane e animali, un ambiente ideale per lo scambio di malattie fra “noi” e
“loro”. Nella storia dell’umanità non era mai accaduto che così tante persone e così tanti
animali vivessero assieme in così poco spazio. All’epoca dell’ultima pandemia d’influenza che
partì dal Guangdong, nel 1968, la Cina aveva 800 milioni di abitanti. Oggi ne ha mezzo miliardo
in più. Allora aveva 5 milioni di maiali, oggi 508 milioni. I polli allevati nel 1968 erano 12,3
milioni, oggi sono 13 miliardi. Aumenta in misura esponenziale la probabilità statistica che in
questi grandi numeri nasca il prossimo flagello epidemico, e che dall’animale passi all’uomo. E
i virus viaggiano. La Sars – è stato scoperto di recente – prima di contagiare l’uomo nacque nel
pipistrello, un’altra prelibatezza nei menu cantonesi.
I contadini di qui, quando gli ispettori sanitari decretano distruzioni di
bestiame infetto, protestano con un vecchio detto: “Quando il maiale è malato, è il
momento di mangiarlo”.
da F. Rampini, LÕimpero di Cindia, Mondadori, Milano 2006