Le prime apparvero all’alba in periferia. Gli addetti alla spazzatura ne trovarono una
decina in un prato. Stavano per caricarle sul camion, pensando che fossero sacchi di
plastica, quando si accorsero della loro stranezza.
Grandi bolle sgonfie, meduse traslucide, alcune ovali, altre oblunghe, talune di forma
irregolare, come un frutto flaccido e malformato. Al tatto non erano viscide né molli, ma
possedevano la consistenza della pelle di un animale, un delfino ad esempio, mentre alcuni
avvertivano il calore di un tessuto morbido. In realtà, parevano consistere di materia
diversa a seconda di chi le avvicinava. Anche se sembravano guaste, morte, non emanavano
cattivo odore. Erano di colori tenui e incerti, dal giallo chiaro all’azzurro perlaceo. Ma
quello che colpì i primi scopritori fu che dentro alla materia opalina, lattescente, di
alcune di esse sembrava apparire, a tratti, l’ombra di un volto, o l’istantanea di una
scena, e qualche volte dall’interno esalava un lieve suono, una voce remota. Le autorità
presero in mano la situazione. Le lacrime, o lacrimoidi, come furono subito battezzate,
furono esaminate in luoghi diversi.
Alcune furono portate all’Istituto di medicina legale, altre alla facoltà di Zoologia,
e un paio, segretamente, a un laboratorio militare che si diceva specializzato nello studio
di apparizioni aliene.
In un primo tempo corse la voce che potessero essere pericolose uova marziane, pronte
a schiudersi e scatenare un’invasione. Ma le analisi stabilirono che non erano forme di
vita, almeno come noi le intendiamo. Non avevano organi né metabolismo, erano inerti,
formate da materie terrestri, silicio, carbonio, sali, anidride carbonica, mucine e lipidi,
anche se combinati in modo assai strano, né minerale né vegetale, qualcuno disse
primordiale, senza saper spiegare di più.
Ma studiarle a fondo non era facile: se si cercava di penetrarne le pareti svanivano
quasi senza lasciare traccia, riducendosi a una goccia che evaporava in pochi istanti.
Alcune si dissolsero sotto gli occhi degli scienziati, quasi non sopportassero neppure uno
sguardo indagatore.
E il giorno dopo, un centinaio di lacrimoidi furono segnalati in varie parti di quella
città. In cortili, in strade, anche sul terrazzo di una casa.
Chi le trovava confermava che si potevano toccare, ma appena si provava ad aprirle, si
dissolvevano. E svanendo esalavano nell’aria rumori simili a voci umane, e sprigionavano
riflessi e colori, schegge di aurora boreale. Ma nessun registratore o telecamera riusciva a
catturare il minimo suono o immagine.
Non erano urticanti, né velenose, né tossiche, stabilì l’apposita commissione
scientifica. La conclusione era quindi che, con ogni probabilità, si trattava di
grosse, anomale gocce di pioggia, che l’inquinamento aveva reso mutanti, mostruose. Non era
escluso che contenessero qualche tipo di gas sconosciuto, in grado di causare lievi
allucinazioni uditive o visive.
Inutile dire che su stampa e televisione uno sciame di esperti si scatenò a ipotizzare
e teorizzare, anche perché la città era ormai invasa dai lacrimoidi. Per gli scienziati
erano il frutto inquietante dell’incombente marasma climatico. Per i fanatici religiosi
erano un avvertimento soprannaturale. Per i politici erano il risultato della dissennata
politica ambientale della parte avversa. Per gli intellettuali erano materiale poetico
scadente, anzi meraviglioso, anzi indicibile, e la polemica li torceva in liti
interminabili.
Un giovane medico scrisse in un articolo di aver notato una particolarità.
Molti, quando si avvicinavano alle lacrime, erano colti da una sottile malinconia. Non
paura, né angoscia, ma l’indefinibile sensazione di ritrovare qualcosa di conosciuto. Una
confusa nostalgia.
La reazione della scienza ufficiale fu secca: da sempre la suggestione crea fantasmi,
che poi svaniscono alla prima prova empirica. Goccioloni di pioggia, e basta.
Ma le assicurazioni non bastavano. Di giorno in giorno i lacrimoidi si moltiplicavano,
i camion ne scaricavano centinaia nell’inceneritore fuori città, anche se sarebbe bastato
farle scoppiare. Si temeva il mistero della loro fragilità o qualche oscuro contagio? Solo
una piccola parte veniva ancora conservata e studiata. Ma intanto si moltiplicavano
e invadevano le strade. Prendere a calci i lacrimoidi e farli scoppiare divenne per
teppisti vecchi e giovani uno sport abituale, anche se c’era una multa. Nel frattempo i
misteriosi invasori erano diventati più piccoli, ma sembravano, per così dire, più vivaci,
quasi arrabbiati.
Cadevano in testa alle persone. Avevano fremiti improvvisi, Nello svanire, alcuni
emettevano un grido animale, altri diffondevano una morgana di luce sanguigna. Uno ferì
lievemente un bambino, con una vampata bollente.
La città accolse inizialmente con piacere i turisti in visita. Fu allestito uno
speciale parco, con vasche in cui i lacrimoidi erano esposti, con giochi di luce e musica.
Ma dopo neanche un mese, la moda turistica svanì. Migliaia di portachiavi di plastica
molliccia restarono invenduti.
I comici non li usarono più nelle loro battute. Nessuno sapeva più cosa pensare di
loro. Continuavano a moltiplicarsi, e la gente cominciava a detestarli. Ma non tutti li
odiavano. Qualcuno, preso da una strana attrazione, li teneva in casa. Una donna si buttò da
un tetto stringendone uno tra le braccia, e subito si sostenne che avevano un
potere malefico. I giornali ebbero l’ordine di non parlarne più, gli scienziati si
arresero. Non si potevano cucinare. Non si potevano vendere.
Bisognava dimenticarli.
Finché una sera, uno scienziato più cocciuto degli altri stava studiando una lacrima,
che aveva trovato nel giardino. L’aveva stesa sul tavolo, oblunga e lucente, e guardava i
suoi cambiamenti di colore. Entrò il figlio di sette anni.
Osservò con attenzione e disse: – Io so cos’è.
Lo scienziato rise.
– Non ridere, papà – disse il ragazzo. – Quello è un sogno. È il sogno che mi hai
raccontato il mese scorso, quando hai detto che volevi andare a lavorare su quell’isola, per
studiare le malattie degli indigeni.
Vedi, dentro si vede, il mare e l’isola. Se ascolti, puoi sentire le voci di quegli
uomini lontani. E questo, – disse indicando col dito una parete di lacrimoide – sei tu.
A quelle parole, la lacrima si ingigantì, divenne quasi sferica, e per un attimo fu
visibile allo scienziato il sogno intero, il paesaggio e i volti.
Sulle prime non volle convincersi. Fece altre analisi. Il figlio lo guardava scuotendo
la testa. Finché una sera, alla luce del tramonto, lo scienziato vide chiaramente dietro la
materia opalina l’immagine di una donna che aveva amato.
Così capì: i lacrimoidi erano sogni trascurati, mai coltivati con cura, mai seguiti
con passione. Sogni perduti senza combattere, sogni buttati via. Lo scienziato ne parlò con
il suo capo. Quello non gli credette, anzi si arrabbiò, sembrava che quell’idea lo
sconvolgesse. Disse che ormai i lacrimoidi stavano diminuendo, non valeva la pena di
rinfocolare l’interesse. Guai a lui se diffondeva quella assurda teoria.
Infatti i lacrimoidi scomparvero.
Il comune licenziò gran parte degli operatori addetti alla ripulitura.
Un libro, Il mistero delle lacrime aliene, neanche arrivò in libreria. Un ultimo
lacrimoide, chiuso in una teca del museo, si dissolse. Poi, una mattina, la città si ritrovò
immersa dentro una grande bolla trasparente. La gente respirava a fatica. E volti, parole,
iniziarono ad appannarsi…
(da S. Benni, La grammatica di Dio, Milano, Feltrinelli, 2007)