Nel pomeriggio di venerdì quindici aprile, Birch si avviò verso la camera mortuaria
col carro e il cavallo per trasportare la salma di Matthew Fenner. Egli ammise in seguito
che non era perfettamente sobrio, benché a quel tempo non si fosse dato così perdutamente al
bere come fece poi, nel tentativo di dimenticare certe cose. Era
solo intontito e sbadato quanto bastava per infastidire il suo cavallo, una bestia
molto sensibile che, quando Birch la tirò brutalmente davanti alla camera mortuaria, prese a
nitrire, a scalpitare, a scuotere con violenza la testa, più di quanto avesse fatto qualche
giorno prima, quando sembrava che fosse la pioggia a innervosirla. La giornata era limpida,
ma s’era levato un forte vento, e Birch fu lieto di trovarsi al riparo quando, aperto il
massiccio portone di ferro, entrò nella cripta scavata nel fianco della collina. Un altro,
forse, non avrebbe trovato di suo gusto quello stanzone umido e quei grevi
odori, con le otto bare posate qua e là, ma Birch a quel tempo non badava a queste
cose e gl’interessava soltanto prendere la bara giusta e metterla nella fossa giusta. Non
aveva dimenticato ciò che gli avevano detto quando i parenti di Hannah Bixbyt, che volevano
traslare le sue spoglie nel cimitero della città in cui erano andati ad
abitare, trovarono sotto la pietra tombale la cassa del giudice Copwell.
La luce era scarsa, ma la vista di Birch era buona, ed egli non scambiò la bara che
cercava per quella di Asaph Sawyer, anche se erano della stessa misura. Quest’ultima,
infatti, egli l’aveva preparata, in origine, per Matthew Fenner; ma alla fine l’aveva
scartata perché troppo misera e sconnessa, in uno strano accesso di sentimentalismo
suscitato dal ricordo della gentilezza e generosità dimostrategli dal vecchietto cinque anni
prima, all’epoca della sua bancarotta. Egli dedicò quindi al vecchio Matt quanto di meglio
il suo ingegno poteva produrre, ma ebbe la prudenza di conservare anche quel lavoro di
scarto e di usarlo quando Asaph Sawyer morì di una febbre maligna. Sawyer non era un uomo
molto ben visto, e si raccontavano molte cose del suo carattere vendicativo, del feroce
accanimento che metteva nel ricordare e
ripagare i torti reali o immaginari che aveva ricevuto. Birch non aveva sentito il
minimo scrupolo ad assegnargli la bara mal riuscita, che ora spinse da una parte per cercare
quella di Fenner.
Fu proprio nel momento in cui aveva individuato la cassa del vecchio Matt che la porta
si chiuse per un colpo di vento, ed egli si trovò immerso in una oscurità più profonda
ancora di prima. La stretta fessura dell’architrave non lasciava passare che un filo di
luce, e la presa d’aria sulla volta non ne lasciava passare affatto: perciò fu costretto a
un sacrilego armeggio per trovare a tastoni la strada verso la serratura.
In questa funerea penombra prese a sbatacchiare convulsamente le maniglie arrugginite
e a dar grandi spallate contro i pannelli di ferro, chiedendosi perché mai il pesante
portale fosse diventato improvvisamente così restìo; e di colpo, intuita la verità, si diede
a lanciare urli altissimi come se il suo cavallo, da fuori, potesse far qualcosa di più che
non fosse emettere un nitrito, e non certo di simpatia. La
serratura così a lungo trascurata aveva finito per rompersi, lasciando il responsabile
di
tanta incuria intrappolato nella camera mortuaria, vittima della sua stessa
imprevidenza.
Questo dev’essere accaduto verso le tre e mezzo del pomeriggio. Birch, che aveva un
carattere flemmatico e volto alle cose pratiche, smise ben presto di urlare e si diede a
cercare a tastoni certi strumenti che ricordava di aver visto in un angolo della stanza. È
improbabile che si sia reso conto di quanto la sua situazione fosse orribile e innaturale,
ma il semplice fatto di trovarsi prigioniero in un luogo così lontano da ogni passaggio
battuto bastava a metterlo completamente fuori di sé. La sua giornata di lavoro era
stata interrotta, e se il caso non avesse guidato in quel luogo qualche viandante, egli
correva il rischio di restare lì tutta la notte e oltre. Raggiunto ben presto il
mucchio di arnesi e preso un martello e uno scalpello, Birch rifece tra una bara e l’altra
il percorso fino alla porta. Poi, quasi alla cieca, cercò di scardinare il pesante e corroso
metallo della serratura senza neppure accorgersi che l’aria andava facendosi sempre più
pesante e fetida. Avrebbe dato qualsiasi cosa per una lampada o per un pezzo di
candela; ma, non avendola, si arrabattava meglio che poteva.
Quando capì che non c’era speranza di forzare la serratura, per lo meno con quei
deboli arnesi e in quell’oscurità, si guardò intorno cercando altre vie di evasione. La
cripta, come ho detto, era stata scavata nel fianco di una collina, per cui lo stretto
camino di ventilazione aperto nella volta attraversava parecchi metri di terra prima di
giungere all’aperto: uscire di lì era dunque fuori questione. Ma sopra la porta, molto in
alto, l’architrave formava una specie di fessura nella facciata di mattoni, e forse,
lavorando con tenacia e attenzione, non sarebbe stato impossibile allargarla; il vero
problema, e Birch, immobile, vi concentrò ora tutta la sua attenzione, era di
raggiungere quella via di salvezza.
Non c’era una scala nella camera mortuaria, e le nicchie scavate nei lati e nella
parete di fondo, che Birch non usava quasi mai per riporvi le bare, non offrivano punti
d’appoggio per arrampicarsi sopra la porta. Restavano soltanto le bare stesse come possibili
scalini per l’ascesa, e non appena gli balenò questa soluzione, Birch, senza
il minimo scrupolo, prese a studiare il miglior modo di metterla in pratica. Tre bare
sovrapposte, calcolò, gli avrebbero permesso di raggiungere l’architrave, ma con quattro
sarebbe stato più comodo.
Doveva essere all’incirca mezzanotte quando Birch decise che ormai poteva passare.
Stanco e sudato nonostante le numerose soste, discese dalla piattaforma e sedette sulla
prima cassa a riprendere le forze per la manovra finale e il salto a terra dall’altra parte
del muro. I nitriti del cavallo affamato s’erano fatti continui, quasi strazianti, ed egli
si augurò che la bestia smettesse. Stranamente, l’evasione ormai prossima non gli dava la
minima esultanza, e anzi, quell’ultimo sforzo che gli restava da compiere lo impensieriva,
era un uomo di mezza età, corpulento e impacciato. Ma nel risalire sulle bare sgangherate
una cosa sola, a un tratto, gli si fece presente: il peso del proprio corpo. Soprattutto
quando, nel mettere il piede sulla più alta, udì quel crepitio secco che precede il
cedimento completo del legno. Evidentemente non era servito a nulla scegliere la bara più
robusta per la sommità della catasta; non appena si trovò con tutta la sua mole su di essa,
il coperchio marcito si sfondò facendolo ricadere mezzo metro più in basso su qualcosa che
perfino lui avrebbe preferito non immaginare. Reso folle dal rumore, o dal fetore che usciva
a zaffate anche fuori dalla cripta, il cavallo diede un grido, troppo lacerante per potersi
chiamare un nitrito, e si precipitò a pazza corsa nel buio della notte seguito dallo
strepitìo frenetico del carro.
Birch, in quella macabra posizione, era adesso troppo basso per infilarsi facilmente
nel varco che aveva allargato, ma raccolse tutte le sue energie, deciso a tentare
ugualmente. Si aggrappò ai bordi dell’apertura e fece per tirarsi su a forza di braccia,
quando si accorse di uno strano impedimento: c’era qualcosa che sembrava trattenerlo per
tutte e due le caviglie. E un istante dopo, per la prima volta in quella notte, ebbe paura;
infatti, per quanto si sforzasse, non riuscì a strapparsi dalla morsa che imprigionava
inesorabilmente i suoi piedi. Dolori terribili, come pugnalate inferte con selvaggia
violenza, gli trafissero i polpacci; e nella sua mente sconvolta dal terrore turbinavano
immagini suggerite dal suo inguaribile materialismo, schegge,
chiodi staccati ed altri corpi taglienti quali si possono trovare in una cassa di
legno che si rompe. Forse gridò. Comunque scalciò e si divincolò freneticamente,
automaticamente, mezzo svenuto e mezzo impazzito dal dolore e dalla paura.
L’istinto lo guidò nel convulso guizzo attraverso il varco, lo spinse ad allontanarsi
strisciando dal punto in cui era piombato malamente sulla terra umida. Non poteva camminare,
e la luna vide certamente uno spettacolo orribile: un uomo che trascinava le caviglie
sanguinanti verso il casotto del cimitero, affondando le dita nella terra
nera con furia dissennata, mentre il suo corpo rispondeva con la stessa esasperante
lentezza che si prova in sogno, quando si è inseguiti da apparizioni d’incubo. Ma in questo
caso, evidentemente, non c’erano inseguitori; ed egli era solo e vivo quando Armington, il
custode del cimitero, rispose al debole raschiare delle sue unghie contro la porta.
Armington aiutò Birch a sdraiarsi su un letto disponibile, e mandò il figlioletto Edwin a
chiamare il dottor Davis. Il ferito non aveva perduto conoscenza, ma non voleva dare nessuna
spiegazione, e si limitava a mormorare parole come: «Ah, le mie caviglie!», «Molla! Molla!»,
oppure «… chiuso nella cripta!». Poi venne il dottore con la sua valigetta, fece poche
domande, e tolse al paziente i vestiti, le scarpe e le calze. Le ferite – entrambe le
caviglie, infatti, erano orribilmente lacerate intorno ai tendini di Achille – parvero
mettere il vecchio medico in uno stato di grande perplessità e quasi spaventarlo. Le sue
domande si fecero sempre più pressanti, e le sue mani tremavano
mentre medicava quelle membra dilaniate, e le bendava come se volesse nascondere le
ferite al più presto possibile.
Quella notte, uscendo, il dottor Davis prese una lanterna e si diresse alla vecchia
camera mortuaria. La luna brillava sulle schegge di mattone sparse qua e là e sui guasti nel
muro della facciata, e la serratura della grossa porta cedette facilmente alla mano che
l’apriva dal di fuori. Temprato da un’antica consuetudine alla dissezione anatomica, il
dottore entrò e si guardò intorno, reprimendo la nausea fisica e mentale che gli dava
l’odore e la vista di ogni cosa. Una sola volta gettò un grido, e poco dopo ebbe un ansito
che fu più terribile di un grido. Poi ritornò correndo al casotto del cimitero e ruppe tutte
le regole della sua professione svegliando e scuotendo il suo paziente e rovesciandogli
addosso un fiotto di parole tremanti e sussurrate a mezza voce, che bruciarono quelle
orecchie sconvolte come un getto di vetriolo.
«Era quella di Asaph, Birch, proprio come pensavo! Conoscevo i suoi denti, con
gl’incisivi superiori mancanti! Non mostrare mai, per amor di Dio, quelle ferite! Il corpo
era già molto putrefatto, ma se lo spirito di vendetta ha mai avuto una faccia, o i resti di
una faccia…! Tu sai che era diabolico nelle sue vendette, ti ricordi che rovinò il vecchio
Raymond trent’anni dopo la lite sui confini delle loro terre, e che schiacciò sotto i
piedi quel cucciolo che lo aveva morso, nell’agosto dell’anno scorso… Era il demonio
incarnato, Birch, un uomo capace di vincere il tempo e la morte, pur di vendicarsi!»
«Perché l’hai fatto, Birch? Era un brutto tipo, lo so, e se gli hai dato una bara di
scarto tanto peggio per lui; ma hai sempre avuto la mano troppo pesante, maledizione! Va
bene farcelo stare a tutti i costi, ma tu sapevi com’era piccolo il vecchio Fenner!»
«Non potrò più togliermi quella scena dalla testa, per quanto viva. Hai scalciato
forte, perché la bara di Asaph era finita sul pavimento. Aveva il cranio sfondato, e tutto
il resto era ruzzolato fuori. Ne ho viste di cose in vita mia, ma quel che ho visto lì era
troppo. Occhio per occhio!
Giusto Iddio, Birch, ma tu meritavi quello che hai avuto! Il cranio mi rivoltò lo
stomaco, ma l’altra cosa era peggio: quelle caviglie troncate di netto per farlo entrare
nella bara scartata di Matt Fenner!»
(in AA.VV., Storie di fantasmi, Einaudi, Torino, 1975)