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IO, L’ATTRICE


Che il mio grande sogno fosse quello di fare l􀀀attrice, ormai lo sapevano
anche i muri. Recitavo da quando ero piccola, chiusa in bagno, davanti allo
specchio in camera da letto, la sera dopo cena per far divertire i miei fratelli.
Ogni occasione era buona per esibirmi: barzellette, cabaret, danze e melodrammi strappalacrime. A seconda dell’umore del momento. Ma la prima
volta che salii su un palcoscenico vero fu per la recita scolastica di fine anno,
nel ‘75. Andavo ancora alle medie, non mi piaceva studiare, stavo sempre
con Silvie e la Savine1 non era ancora il quartiere lurido e degradato che divenne in seguito.
Me lo ricordo ancora come fosse ieri, fu la festa più divertente della mia
carriera scolastica. Il ruolo che mi avevano assegnato non era un granché,
quattro misere battute. Una più stupida dell’altra: – Madame è servita –.
– Il caffè di Madame è pronto. – Devo prendere le valige di Madame?
– Madame non parte più?
Ebbene sì, facevo la cameriera. Del resto, già allora avevo intuito che le
“Mesdames”, anche in teatro, erano sempre bianche e che una ragazza con
la pelle nera e i capelli crespi finiva per essere agli occhi di tutti perfetta per
fare la cameriera, o al massimo la bambinaia. Comunque ero felice lo stesso.
Finalmente avrei potuto recitare davanti a un pubblico vero. Conoscevo a
memoria le mie battute, e anche quelle di tutti gli altri. Per quindici giorni
lavorai fino a tardi a preparare scene e costumi. Finché arrivò il gran giorno.
In sala c’erano i genitori di tutte le mie amiche. Io, però, a casa non avevo
detto niente. Mi vergognavo. Non volevo che i miei mi vedessero vestita con
quel ridicolo grembiule, nei panni di una semplice serva. Ma la cosa si seppe lo stesso, perché mio fratello e mia sorella frequentavano la stessa scuola.
Da dietro le quinte spiavo la platea. Giunse il mio turno: strinsi forte il vassoio e mi diressi dritta verso il centro del palcoscenico. Non mi aspettavo applausi per la mia entrata in scena, e infatti non ce ne furono: ero soltanto una cameriera. Non sorrisi. Evitai la prevista riverenza e mi avvicinai a –
Madame –. In quell’istante, guardando negli occhi la mia compagna che
aspettava la mia battuta, un’idea pazza mi attraversò la mente. Cambiai il
copione. Rovesciai l’intero vassoio sul vestito della mia amica – per il quale
tra l’altro avevo lavorato tanto anch’io – e improvvisai: – Oooh! Mi dispiace
tanto. Vada a cambiarsi, Madame. Vada, ai suoi ospiti penso io.
La malcapitata non poté fare diversamente, aveva il vestito completamente
macchiato. Si alzò stizzita e uscì di scena. Il professore dal fondo della sala mi guardava severo, ma il pubblico rideva e applaudiva. Era il mio grande momento. Rubai il ruolo di Madame ampliandolo sino al ridicolo.
Il monologo che ne scaturì era una sorta di parodia del copione esistente
che – come ho detto – conoscevo per filo e per segno.
– Sapete, miei cari ospiti, mi hanno fatto fare la cameriera, ma questo ruolo non mi si addice. Io sono una signora, una vera signora; del resto, è superfluo dirlo, si vede a colpo d’occhio.
Risero tutti a crepapelle e io mi divertii un mondo. M’ero tolta la soddisfazione di fare per un po’ la protagonista. Qualche minuto dopo la vera Madame tornò sulla scena con un vestito pulito e io, tranquillamente, raccolsi il vassoio, feci, questa volta sì, la riverenza e sparii dietro le quinte. Pensavo che m’avrebbero linciata, invece il pubblico continuò ad applaudire a lungo e il professore venne a congratularsi. Da quel momento fui convinta d’essere una vera artista, di quelle che nascono ogni cent’anni.
Ma torniamo a noi. Era passato tanto tempo da quei giorni spensierati.
Ormai ero grande. La scuola l􀀀avevo conclusa e i miei sogni di gloria erano
rimasti tutti chiusi in un cassetto. Fino a quando, una mattina, sfogliando
distrattamente una rivista, lessi un annuncio: Se avete talento, bella presenza e grinta, partecipate al concorso indetto dal Teatro Lacrié. Il Lacrié è un teatro famoso che sta nel centro di Marsiglia. Ci recitano grandi attori, compagnie rinomate. Pensai fosse giunta la mia grande occasione. Vedevo già il mio nome a caratteri cubitali su tutti i cartelloni pubblicitari della mia città.
E sui giornali: È nata una stella. Naci5, la prima ragazza araba di colore proveniente dai quartieri malfamati di Marsiglia che è riuscita a sfondare nel mondo dello spettacolo.
Strappai quattro fogli prima di arrivare a comporre una lettera che fosse all’altezza delle mie aspirazioni. Ci misi dentro la mia foto più bella e un francobollo per la risposta, indirizzai al direttore del Lacrié e spedii. Esattamente una settimana dopo ricevetti la risposta. L’appuntamento
per la selezione preliminare6 era per il mercoledì seguente, avevo due giorni di tempo. Non so descrivere la gioia incontenibile che provai. Per la strada
sorridevo a tutti, anche a quelli che non conoscevo. Scelsi l’abito adatto: un completo blu, giacca e minigonna. Qualcuno m’aveva detto che in questi casi la minigonna può aiutare. Studiai a lungo anche la pettinatura e il trucco. Cercai di perfezionare il più possibile il modo di camminare, di sorridere, di parlare. Imparai a memoria due brani di commedia, uno comico e uno drammatico. Tutto questo davanti allo specchio di camera mia. La mia famiglia pensava che fossi improvvisamente impazzita e tutti in casa stavano alla larga da me.
All’indirizzo dell’appuntamento, però, non trovai un teatro, bensì un ufficio, un grande stanzone con le pareti blu. Indugiavo sulla porta un po’ perplessa, quando un signore seduto dietro una scrivania mi fece cenno di entrare. Era solo, i gomiti appoggiati sul tavolo e le mani incrociate. Mi avvicinai emozionatissima cercando di camminare dritta, di comportarmi da vera professionista e mascherare il mio accento dialettale. Speravo proprio, con tutti questi accorgimenti, di apparire come una ragazza dei quartieri alti. Ma non ci fu nessun provino. Solo domande. Per di più stranissime.
– Qual è il suo colore preferito?
– Che libri legge?
– Quante volte al mese va a teatro?
– Mi dica quattro cose che le piace fare.
Le pareti della stanza erano blu e così pensai che la risposta migliore alla
prima domanda fosse quella: se gli piace il blu sarà contento che piaccia anche a me. Quanto ai libri, non ne avevo più preso uno tra le mani da quando avevo finito la scuola: gli dissi il titolo dell’ultimo romanzo letto in classe.
Sul teatro, poi, non sapevo davvero che dire. C’ero stata solo due volte in vita
mia, una per la famosa recita scolastica e l􀀀altra con la classe prima del diploma.
Tra le mie amiche alla Savine non ce n􀀀era davvero nessuna con cui andare a teatro. Perciò inventai:
– Una volta al mese.
Faceva dodici volte l’anno, sperai che gli andasse bene. L’ultima domanda,
meno male, era facile. Fui prontissima:
– Cosa mi piace fare? Ridere, ballare, recitare e viaggiare!
Non superai quella selezione. E per giorni e giorni stetti molto male. Mi
sembrava che tutti i miei sogni si fossero irrimediabilmente infranti. Pensavo
anche che la ragione fosse nel colore della mia pelle. Ce l’avevo con tutto e con tutti. Finché, dopo qualche settimana di mutismo e malumore, decisi che era giunto il momento di cambiare aria. Feci le valigie e montai sul primo treno per Parigi.

da N. Chohra, Volevo diventare bianca, Edizioni E/O, Roma 1973
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