Verso la fine di giugno si sparse la voce che i rappresentanti dei
cafoni
della Marsica stavano per essere convocati a una grande riunione ad
Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla
questione del Fucino.
La notizia ce la portò Berardo, e dai suoi occhi si poteva capire la sua
speranza. Se ne parlò a lungo: la notizia ci impressionò perché i passati
Governi non avevano mai voluto ammettere che esistesse una questione
del Fucino e, da quando erano state sospese le elezioni, lo stesso don
Circostanza aveva dimenticato che esistesse una tale questione, di cui
prima assai parlava; che a Roma, però, vi fosse un nuovo Governo, non
era da mettere in dubbio, perché da vario tempo se ne sentiva discorrere.
Questo poteva anche essere una conferma che doveva esserci stata e
doveva esserci ancora una guerra; perché solo una guerra scaccia i vecchi
governanti e ne impone dei nuovi; così dalle nostre parti, come raccontano
i vecchi, i Borboni avevano preso il posto degli spagnoli e i piemontesi
il posto dei Borboni. Ma donde provenissero e di che nazione fossero i nuovi
governanti, a Fontamara non si sapeva ancora con certezza.
La speranza che in una nuova divisione delle terre del Fucino egli
potesse finalmente averne un pezzo, tratteneva Berardo dal contraddire
le opinioni degli altri, come altrimenti era suo costume e vizio.
– Ogni Governo è sempre composto di ladri – egli ragionava. – Per i cafoni è meglio,
naturalmente, che il Governo sia composto di un solo ladro piuttosto che di cinquecento.
Perché un gran ladro, per quanto grande sia, mangia sempre meno di cinquecento ladri,
piccoli e affamati.
Se poi divideranno nuovamente le terre del Fucino, Fontamara deve far valere i suoi
diritti.
A quella vicina possibilità Berardo era preso da una commozione che non riusciva a
nascondere; e non riusciva a parlare d’altro.
– La terra del Fucino –, ripeteva – quella è la terra benedetta. Da un sacco di grano
seminato ne puoi ricavare dieci. È terra fine e grassa, è senza sassi, è terra tutta piana,
al sicuro dalle alluvioni.
E chi non lo sapeva? Ma sapevamo anche che ai Fontamaresi, abitanti della montagna,
era stato sempre negato il diritto di considerarsi rivieraschi dell’antico lago e perciò
eravamo stati esclusi dallo sfruttamento della conca prosciugata.
– Esclusi? – protestava violentemente Berardo. – Ma nell’epoca dei grandi lavori anche
noi andiamo a Fucino.
– Come braccianti –, precisava Zompa – non come fittavoli. Come braccianti puoi essere
chiamato anche nel giardino del re.
– E perché –, replicava Berardo mostrando i pugni minacciosi – se han bisogno di noi
come braccianti, non possono anche affittarci le terre?
Da tanti anni noi Fontamaresi supplicavamo per questo diritto, ma ci avevano sempre
risposto con risate. – Finché una domenica mattina, con un rumore d’inferno, arrivò un
camion a Fontamara e si fermò in mezzo alla piazza. Ne discese un conducente vestito come un
militare e si mise a gridare a quelli che si avvicinavano richiamati dal rumore.
– Ad Avezzano, vi porto ad Avezzano, salite –, e indicava il camion.
– Quanto costa? – gli domandò prudentemente il vecchio Zompa.
– È gratis – spiegò il conducente.
– Gratis? – Zompa arricciò il naso e scosse la testa.
– Perché – gli chiese il conducente. –Tu preferiresti forse pagare?
– Ah, no – si affrettò a chiarire Zompa. – Che Dio me ne liberi. Ma se è gratis, c’è
l’inganno. Il conducente non gli fece più caso e riprese a gridare:
– Presto, presto; chi tardi arriva, male alloggia.
Accorse Berardo e senza tante spiegazioni, anzi, con un’allegria che
nessuno gli conosceva, saltò sul camion.
Quel gesto ruppe gli indugi anche degli altri. Ma chi doveva andare?
Era un caso che a Fontamara ci trovassimo ancora una diecina di cafoni,
mentre gli altri erano già partiti in campagna, perché anche la domenica,
d’estate, quando c’è molto da fare, la stessa Chiesa ha sempre permesso
di lavorare.
D’altra parte, sarebbe stato ridicolo, per non perdere una giornata di
lavoro, rimanere assenti da una riunione in cui si doveva risolvere, anche
a nostro beneficio, la questione del Fucino.
Di colpo si riaccese in noi l’antica speranza: la buona, grassa, fertile
terra di pianura, di cui don Circostanza ci aveva molte volte parlato,
specialmente alla vigilia delle elezioni. “Fucino deve appartenere a
chi lo coltiva” era il ritornello di don Circostanza. Fucino doveva essere
tolto al principe e ai falsi fittavoli, ai contadini ricchi, agli avvocati
e agli altri professionisti, e concesso a quelli che lo facevano fruttificare,
cioè, ai cafoni. Perciò una grande agitazione si impadronì di
noi nel salire sul camion all’idea che ad Avezzano, quel giorno stesso,
stava per aver luogo la nuova spartizione del Fucino e che il Governo
aveva mandato apposta quel camion a Fontamara perché voleva che i
cafoni fontamaresi avessero finalmente la loro parte. I pochi cafoni
presenti a Fontamara saltammo dunque sul camion, senza chiedere
altre spiegazioni.
Prima di partire però, proprio nell’ultimo momento, ci chiese:
– E il gagliardetto?
– Quale gagliardetto? – domandammo noi.
– “Ogni gruppo di contadini deve assolutamente portare il gagliardetto”,
dicono le istruzioni da me ricevute – aggiunse il conducente.
– Ma, scusate, cos’è il gagliardetto? – domandammo noi imbarazzati.
– Il gagliardetto è la bandiera – spiegò ridendo il conducente.
Noi non volevamo far brutta figura di fronte al nuovo Governo, proprio nella cerimonia
in cui si doveva risolvere la questione del Fucino.
Perciò acconsentimmo alla proposta di Teofilo, che custodiva le chiavi della chiesa ed
ebbe l’idea di portare con noi lo stendardo di San Rocco. Con l’aiuto di Scamorza, egli andò
in chiesa a prendere lo stendardo, ma quando il conducente li vide tornare, reggendo a
fatica un albero lungo dieci metri, al quale era attaccato un immenso drappo di color bianco
e celeste, con l’immagine dipinta di San Rocco e del cane che gli lecca la piaga, voleva
opporsi a lasciarlo caricare sul
camion. Ma a Fontamara noi non avevamo altra bandiera e su insistenze
di Berardo il conducente finì col consentire a lasciarci portare
lo stendardo.
Il camion correva pazzamente in discesa con scarso riguardo per le
continue svolte, e noi eravamo violentemente sballottati l’uno contro
l’altro, come un branco di vitelli; ma ne ridevamo. Anche quell’insolita
rapidità dava alla nostra gita il carattere di una avventura straordinaria;
ma quando, all’ultima svolta, all’improvviso, davanti a noi, ci trovammo
la pianura del Fucino, vastissima e dorata di messi mature, spartite
da filari di pioppi giganteschi, l’emozione ci tagliò il respiro. Fucino
aveva un aspetto nuovo: l’aspetto della terra promessa. A quel punto
Berardo afferrò lo stendardo da solo e con la forza in più che gli veniva
Dall’entusiasmo, l’innalzò e agitò nell’aria l’immagine del santo pellegrino
e del pio cane.
– Terra, terra – si mise a gridare come se non l’avesse mai vista.
All’entrata del primo paese che incontrammo sulla via del piano, il conducente ci
intimò:
– Cantate l’inno.
– Quale inno? – domandammo noi imbarazzati.
– “Attraverso ogni abitato, i contadini devono cantare l’inno e dare
segni d’entusiasmo”, sono le istruzioni da me ricevute – rispose il conducente.
Ma noi non conoscevamo nessun inno e d’altronde sulla via del piano
ci eravamo incolonnati con altri camion carichi di cafoni, con numerose
bighe padronali, automobili, motociclette e biciclette, che anche
loro andavano nella stessa direzione. La vista del nostro immenso
stendardo bianco-celeste con la immagine del santo suscitava in tutti
dapprima stupore e poi interminabili risate insulse. Le bandiere che
traevano gli altri erano nere e non più grandi di un fazzoletto e avevano
nel centro l’immagine di un teschio tra quattro ossi, come quella che si
vede sui pali del telegrafo con la scritta Pericolo di morte; insomma
niente affatto più bella della nostra.
A causa dello stendardo, avemmo un violento tafferuglio all’entrata
di Avezzano. In mezzo alla strada trovammo un gruppo di giovanotti
con la camicia nera che aspettavano proprio a noi e subito ci intimarono
di consegnare lo stendardo. Noi rifiutammo perché non avevamo
altra bandiera. Il nostro conducente ricevette ordine di fermare il camion
e i giovanotti cercarono di sequestrarci lo stendardo con la forza.