La furia del vento, del mare, della pioggia
– Arriva il monsone! – gridò il signor Panwallah, ritirandosi in fretta dalla muraglia
che proteggeva il lungomare, investito proprio in quell’istante da un’enorme ondata che
spruzzò la folla che come sempre era venuta a guardare. – Hari, guarda, ecco il monsone!
Hari annuì col capo, ridendo mentre la spuma lo infradiciava. La
folla arretrò rapidamente mentre un’altra ondata s’infrangeva fragorosamente
contro la muraglia, poi un’altra ancora. Il mare ribolliva di cavalloni che sembravano
impennarsi al largo e poi rotolavano furiosi verso la costa. Nel cielo non c’erano ancora
nubi, ma il mare sembrava sapere che stavano arrivando e andava loro incontro increspandosi
con marosi altissimi.
Il signor Panwallah aveva condotto Hari al lungomare di Worli perché vedesse
l’approssimarsi del monsone. Disse che lo faceva ogni anno, un giorno della prima settimana
di giugno.
– Grazie, signor Panwallah, – si ricordò di dire.
Non sapeva, quella sera, quanto il monsone avrebbe reso difficile la vita alla gente
di Bombay. Il dieci di giugno il mare scavalcò all’improvviso il muraglione e si riversò
sulla città, proprio come aveva previsto il signor Panwallah. Al pari di tutti gli altri
abitanti di Bombay, Hari rimase al riparo dentro la locanda, guardando la pioggia che
ricopriva la città come un immenso lenzuolo nero mentre nelle strade aumentava il livello
dell’acqua. La strada davanti alla locanda divenne dapprima una sorta di canale di scolo –
l’immondizia di un anno intero fu dapprima sollevata e poi trascinata via – quindi un vero e
proprio fiume. Le fognature si ostruirono, la marea crescente risospingeva l’acqua in
superficie allagando tutta la città. Le auto dovettero fermarsi, bloccate in quella melma
maleodorante alta fino al ginocchio.
Per un po’ i ragazzini di strada si divertirono a spingere le auto sopra i
marciapiedi, ricevendo qualche soldo dai proprietari. Anche Hari e i suoi due compagni
uscirono a guadagnarsi qualcosa, e fu la prima volta che Hari li vide ridere mentre
chiedevano una mancia agli automobilisti e spingevano auto e taxi fuori dalle prime grosse
pozzanghere. La città fu ripulita non solo dalla sporcizia di un anno, ma anche dalla calura
estiva, e l’improvviso calo di temperatura diede a tutti una scrollata: sembrava un pic-nic,
una vacanza. E in effetti per studenti e scolari fu una vacanza: poiché era impossibile
raggiungere la scuola senza inzupparsi dalla testa ai piedi, rimasero a
casa. Fu una vacanza anche per gli impiegati, che non potevano andare al lavoro perché
autobus e treni non funzionavano. – Presto avremo bisogno di barche! – gridavano i bambini
sguazzando nell’acqua sempre più alta.
Piovve giorno e notte, per settimane e settimane.
Anche quando il ritmo della pioggia rallentò e l’acqua nelle strade diminuì, nulla
riusciva ad asciugarsi, restava tutto umido e infangato, e c’era ovunque cattivo odore. Ogni
volta che usciva a svuotare il bidone della spazzatura o a comprare le sigarette per qualche
cliente, Hari si bagnava e poi restava tutto il giorno con la camicia
umida incollata addosso, tremando visibilmente. Il signor Panwallah stava anche
peggio, tirava su col naso, tossiva e scatarrava senza sosta. Una mattina non
venne ad alzare la serranda. Il giorno prima Hari si era accorto che stava male: aveva
lasciato fare tutto a lui perché la febbre e il mal di testa non gli davano tregua. Privato
della bottega e del parco, Hari era confinato nello spazio angusto della locanda.
Aveva la sensazione che sarebbe stato recluso per sempre.
Evidentemente Jagu se ne accorse. Una sera, mentre stava per chiudere a chiave la
cucina, gli diede un’occhiata: Hari, seduto sul pavimento, tossiva stringendosi le ginocchia
con le braccia.
– Non stai bene, – gli disse. – Vieni con me, ti porto a casa mia.
Hari gli fu talmente grato che scattò in piedi e lo seguì senza una parola. Non aveva
idea di dove Jagu vivesse o dove lo stesse conducendo, ma sarebbe andato a casa di chiunque,
pur di uscire di lì.
Jagu era proprietario di un ristorante, seppur modestissimo, era padrone di una
locanda in una strada molto frequentata e aveva moltissimi clienti, eppure viveva in uno
slum, uno di quei quartieri di baracche fatte di stracci e latta pressata, che a Bombay si
chiamano zopadpatti. In città non c’erano case e appartamenti a sufficienza per i milioni di
lavoratori immigrati a lavorare, perciò gli affitti erano altissimi e persone come Jagu non
potevano permettersi neppure un appartamento minuscolo. Lui si considerava giù fortunato di
poter affittare una baracca in uno zopadpatti.
Le baracche erano aggrappate al fianco di una collina, sulla costa, sull’altro lato
dell’ampio corso dove il signor Panwallah aveva portato Hari a vedere l’arrivo del monsone.
Sul versante della collina che guardava il mare erano stati costruiti eleganti palazzi rosa,
verdi e gialli, con nomi come Gabbiano e Raggio di sole, e lì abitavano i ricchi.
Sull’altro versante s’addensavano le baracche della povera gente, giù giù per il
pendio fino a una fogna a cielo aperto e a una strada piena di traffico.
Seguendo Jagu sul sentiero, Hari sprofondava nel fango molle. Sembrava che la collina
si stesse trasformando in una cascata di fango. Sembrava che le baracche stessero scivolando
verso il basso, nella fogna intasata che separava lo zopadpatti dalla strada. Più avanzavano
lungo il sentiero, più Hari era preoccupato: possibile che Jagu abitasse in una di quelle
baracche? Possibile che lo trascinasse fin lì? Sì, era
possibile, perché proprio in quel momento si fermò davanti a una di quelle strutture
di latta pressata, stracci e teli di plastica, sollevò lo straccio che pendeva sulla soglia,
si piegò in due ed entrò, poi gli fece cenno di entrare e Hari dovette chinarsi a sua volta.
La pioggia, il fango, il sudiciume che c’erano fuori erano penetrati anche dentro quel
tugurio, attraverso gli interstizi delle pareti e del soffitto. Il pavimento di terra
battuta era coperto d’acqua piovana e dei detriti che l’acqua porta con sé. La famiglia di
Jagu era appollaiata su un letto di corde, come su una zattera. Tutti i loro averi, dentro
lattine e scatole di cartone erano allineati su rialzi di mattoni e pietre lungo le pareti.
Dalle travi di bambù del tetto pendevano alcuni fagotti.
Hari era interdetto, si domandava se avrebbe dovuto salire anche lui sul tetto, già
così affollato.
Ma no, c’era una panca di legno non del tutto stipata di pentole, scatole e fagotti.
– Siediti lì, – gli disse Jagu, poi si rivolse ai suoi famigliari.
Molte paia di occhi lo fissavano da sotto gli stracci con cui si riparavano dalle
gocce di pioggia che filtravano dal tetto in rovina.
Era molto buio, il solo chiarore veniva dal lampione al di là del rigagnolo.
Poi si udì la voce di una donna. Dapprima Hari non capì quel che diceva, era così
tagliente, acuta e veloce. Poi riconobbe imprecazioni che gli erano famigliari e si sentì
ancora più a disagio.
– Sta’ calma, – brontolò Jagu. – Dammi qualcosa da mangiare e dà un piatto anche al
ragazzo. Sta male. Domani lo porto all’ambulatorio, ha bisogno di medicine. Stanotte dorme
qui. Il giorno del cocco: la festa per la fine del monsone. E finalmente venne il Giorno del
cocco, anche prima che le piogge fossero cessate del tutto. Niente più rovesci, solo qualche
spruzzatina di tanto in tanto da qualche nuvola passeggera. Le nuvole non erano più una
cappa lanuginosa che ricopriva e oscurava la città, si erano
divise in sbuffi cremosi che veleggiavano nell’aria. Il mare era quasi calmo, niente
più cavalloni minacciosi che dal lungomare si riversavano nelle strade, solo piccole onde
fangose ed esauste dopo tante tempeste. Gli edifici erano ancora umidi e coperti di muffa,
ma non sembravano più costruiti su palafitte e cominciavano ad asciugarsi.
Il mattino del Giorno del cocco piovigginò per un po’, ma a quell’ora erano ancora
tutti in casa che celebravano la puja accendendo bastoncini d’incenso e deponendo piattini
di petali e dolciumi dinanzi all’immagine di Ganesh, il dio dalla testa d’elefante
protettore di Bombay. Nel pomeriggio, quando la folla si riversò nelle strade portando
con sé le noci di cocco da buttare in mare, c’era il sole, che dava una coloritura
dorata alla città ancora sudicia dopo il monsone.
Hari e il signor Panwallah erano tra le migliaia di persone che si dirigevano verso
Chowpatty, la spiaggia che Hari aveva scambiato per un luna park quando l’aveva vista per la
prima volta. Oggi lo era davvero, un luna park! I poliziotti erano tutti mobilitati a
dirigere il traffico, in modo che la marea di gente potesse attraversare Marina Drive e
raggiungere la riva – e anche questo particolare ricordò a Hari il
giorno in cui era arrivato a Bombay. Ogni centimetro di spiaggia era occupato; c’erano
più banchetti e venditori ambulanti che in qualunque altro giorno dell’anno, vendevano
noccioline, gelati, bibite colorate, palloncini, fischietti e pifferi di carta. E
ovviamente, noci di cocco verdi. Tutti ne compravano una da offrire alle acque del mare come
ringraziamento per la fine del monsone, e per essere sani e salvi.
Il signor Panwallah, ancora un po’ pallido e curvo dopo la lunga malattia, comprò a
Hari una noce di cocco. – Tieni i soldi per i regali alla tua famiglia, – disse quando Hari
tentò di pagare, poi si fecero strada verso la riva del mare. C’erano uomini che battevano
sui tamburi che portavano appesi al collo, altri che danzavano allargando i gomiti e
piegando le ginocchia e avanzavano gridando e saltellando come rane. Le donne indossavano
sari nuovi e coloratissimi – rosa, gialli, viola e arancioni – e tutte avevano fiori tra i
capelli. Alcune lanciavano nell’aria polvere rossa che ricadeva sulle loro spalle e sulla
testa e luccicava nella luce del sole pomeridiano. Raggiunsero infine la battigia, umida
dopo che la marea si era ritirata. La sabbia bagnata scintillava riflettendo le grandi
nuvole rosa che veleggiavano nel cielo dorato. I bambini correvano scalzi fino al mare dove
i pescatori, sulle loro barche, aspettavano chi voleva andare al largo per immergere i
cocchi nell’acqua profonda. Altri li buttavano semplicemente dalla riva o li accompagnavano
nell’acqua per un tratto facendoli galleggiare.
Migliaia di noci di cocco si muovevano sulla superficie dell’acqua e poi affondavano.
Centinaia di ragazzini si buttavano tra le onde per recuperarle.
(da A. Desai, Il villaggio sul mare, Torino, Einaudi, 2002, riduzione)