Me ne sto curvo in una grande buca, con le gambe nell’acqua fino alla vita. Se
l’attacco si sferra, mi immergerò nell’acqua quanto più posso senza affogare, con la faccia
nella mota, facendo il morto. D’un tratto sento che il fuoco arretra. Subito mi lascio
scivolare giù nell’acqua, l’elmo sulla nuca, la bocca a fior d’acqua, tanto appena da
respirare. E resto immobile, giacché poco distante sento pedate e rumor d’armi, i nervi mi
si contraggono agghiacciati. Il rumore mi oltrepassa.
La prima ondata è passata. Ho avuto un solo pensiero, imperioso: Che fare, se qualcuno
salta nella buca? Strappo fuori il pugnale, lo impugno forte, lo nascondo, con
tutta la mano, nella mota.
Colpire subito, se qualcuno salta dentro; questo mi martella in fronte: colpire alla
gola, perché non possa gridare; non c’è altro scampo; sarà spaventato al pari di me, il
terrore ci getterà l’uno contro l’altro, e allora devo essere io il primo.
Ora entrano in azione le nostre batterie. Una granata scoppia vicino: ciò mi rende
pazzo di furore, non ci mancherebbe altro che i nostri pezzi mi colpissero! Bestemmio e
digrigno i denti nella mota: è un delirio di rabbia; alla fine non so che gemere e
supplicare.
Il crepitare delle mitragliatrici, lo strisciare dei corpi, il tintinnìo delle armi si
avvicinano: un grido acuto, uno solo, si leva. Sono inseguiti dal nostro tiro, l’attacco è
respinto. Si è fatto un poco chiaro. Passi affrettati mi sfiorano. I primi. Si allontanano.
Altri ancora. Il crepitare delle mitragliatrici si estende a una catena ininterrotta. Sto
per voltarmi un poco e cambiar posizione, quand’ecco qualcosa ruzzola giù, un tonfo in
acqua, un corpo pesante è cascato nella buca, addosso a me...
Non penso, non decido, colpisco pazzamente, sento che il corpo sussulta, e poi si
affloscia e s’insacca: quando ritorno in me, ho la mano bagnata, viscida… L’altro rantola.
Ho l’impressione che urli, ogni suo respiro è come un grido, un tuono, ma sono soltanto le
mie arterie che battono. Vorrei tappargli la bocca, riempirla di terra, pugnalarlo ancora:
deve tacere, mi tradisce; ma sono già tanto tornato in me, e sono ad un tratto così debole,
che non posso più alzar la mano contro di lui.
Mi trascino dunque nell’angolo più lontano, e resto là, con gli occhi sbarrati, il
coltello in pugno, pronto, se si muove, a saltargli addosso un’altra volta... Ma non farà
più nulla, lo sento dal suo rantolare.
L’aria schiarisce sempre più. Aspetto febbrilmente un attacco dei nostri. Le
nocchedelle dita sembrano voler bucare la pelle, con tanto spasimo stringo i pugni,
supplicando che il fuoco cessi e che i miei compagni arrivino. I minuti stillano ad uno ad
uno. Non oso più guardare l’oscura figura dell’altro, che è con me nella buca.
Guardo la mia mano insanguinata, e all’improvviso provo un senso di nausea: prendo un
po’ di terra e la sfrego sulla mano; così almeno si sporca, e non vedo più il sangue. Il
fuoco non diminuisce: ora è egualmente intenso dalle due parti. Certo i nostri mi hanno dato
per morto da un pezzo.
È giorno, un mattino chiaro e grigio. Il rantolo continua. Io mi tappo le orecchie, ma
poi subito riapro le mani, perché altrimenti non odo più gli altri rumori. È morto, dico a
me stesso: deve esser morto, non sente più nulla; chi rantola è soltanto il suo corpo. Ma la
testa tenta di sollevarsi, il gemito si fa per un istante più forte, poi la fronte ricade
sul braccio. L’uomo non è morto; muore, ma non è morto ancora. Mi trascino verso di lui, mi
arresto, punto sulle mani, poi scivolo un po’ più in là, aspetto ancora: un orribile cammino
di tre metri, un lungo, terribile viaggio.
Finalmente eccomi presso di lui.
Allora apre gli occhi: deve avermi sentito, e mi fissa con un’espressione di
indicibile orrore. Il corpo giace immobile, ma negli occhi gli leggo che vuol fuggire, una
volontà di fuga così tremenda, che per un attimo mi pare che abbiano la forza di rapire
lontano quella povera salma, via, lontano, a centinaia di chilometri, d’un sol balzo. Il
corpo è immobile, perfettamente tranquillo, muto ormai, perché il rantolo è cessato; ma gli
occhi gridano, urlano, tutta la vita si raccoglie in uno sforzo immenso, di fuggire, di
fuggire; in uno spaventoso orrore della morte... e di me.
Io mi accascio a terra, sui gomiti:
– No, no – mormoro. I suoi occhi mi seguono. Non posso fare un movimento, finché mi
fissano così.
Adagio adagio la sua mano si stacca dal petto, solo un piccolo tratto, pochi
centimetri. Ma basta quel movimento a sciogliere l’incubo di quello sguardo. Mi piego su di
lui, scuoto la testa e mormoro: – No, no, no – e alzo la mano, per mostrargli che lo voglio
aiutare, e gli sfioro la fronte.
A quel tocco gli occhi sembrano ritirarsi; ormai perdono la loro fissità, le ciglia si
abbassano alquanto, la tensione cede. Allora gli sgancio il bavero, e cerco di poggiare più
comodamente la sua testa. La bocca è semiaperta e si sforza di formulare parole.
Ma le labbra sono aride. Non ho con me la borraccia, l’ho lasciata in trincea. Ma c’è
dell’acqua motosa, giù nel fosso. Scendo, tiro fuori il fazzoletto, lo spiego nella melma,
raccolgo nella mano l’acqua gialla che ne filtra. Egli la beve. Vado a prenderne ancora.
Poi gli slaccio la giubba, per bendarlo, se si può. Devo fare così ad ogni modo,
affinché quelli di là, se mi fanno prigioniero, vedano che ho cercato di soccorrere il loro
compagno e non mi fucilano sul posto. Egli cerca di schermirsi, ma la sua mano è troppo
debole.
La camicia è attaccata alla piaga e non si lascia aprire; non mi resta che tagliarla.
Allora cerco e ritrovo il mio coltello; ma quando comincio a tagliare la camicia, quegli
occhi si spalancano di nuovo, e di nuovo c’è in essi quel grido, quel delirio, cosicché sono
costretto a chiuderli, a tener le dita sulle palpebre, mentre mormoro: – Ma no, ma ti voglio
soccorrere, compagno, camarade, camarade... E ripeto con insistenza la parola, perché la
capisca.
Sono tre pugnalate. Il mio pacchetto di medicazione le fascia, ma il sangue scorre
sotto le bende; le comprimo e il ferito geme. È tutto quello che posso fare. Ora non resta
che aspettare, aspettare...
È la prima creatura umana che io abbia ucciso con le mie mani, che io possa veder da
vicino, e la cui morte sia opera mia. Ma ogni suo respiro mi strappa il cuore. Questo
morente ha per sé le ore, ha un pugnale invisibile col quale mi colpisce: il tempo e il mio
pensiero.
Non so che cosa darei perché rimanesse in vita. È duro starsene qui, doverlo vedere,
doverlo udire...
Alle tre del pomeriggio è morto.
Il silenzio diventa lungo e vasto. Io mi metto a parlare, debbo parlare. Mi rivolgo al
morto e gli dico: – Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua
dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo
un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho
pugnalato questa formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue
bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e
quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi.
Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme
sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la
stessa morte e lo stesso patire...
Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e
queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prenditi venti anni
della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai
fare.
Silenzio. Il fronte è tranquillo, salvo il crepitare della fucileria. Il tiro è fitto,
non si spara a caso, si mira bene da ambe le parti. Uscire è impossibile.
– Scriverò io a tua moglie – mormoro in fretta al morto – le scriverò, avrà la notizia
da me, le dirò tutto quello che dico a te, non deve patire, voglio soccorrerla lei e i tuoi
genitori e il tuo bambino.
La sua uniforme è ancora a metà aperta. Il portafogli si trova facilmente. Ma esito a
mettervi le mani. C’è dentro il libretto personale. Finché non so il suo nome potrò forse
ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine. Ma il suo nome è un chiodo che si
pianterà in me e non si potrà strappare mai più. E avrà il potere di rievocare ad ogni
istante questa scena: tutto ritornerà e ricomparirà davanti a me.
Indeciso, tengo in mano il portafogli. Mi sfugge dalle dita e si apre, ne cadono
alcune fotografie, qualche lettera. Sono i ritratti di una donna e d’una bambina, piccole
fotografie da dilettante, davanti a un muro vestito d’edera. Poi le lettere. Le traggo dalle
buste e tento di leggerle.
Capisco ben poco, son difficili da decifrare, e il mio francese è scarso. Ma ogni
parola che riesco a intendere è come una fucilata, come una pugnalata nel petto.
Sento che perdo la testa: ma una cosa comprendo bene, che a questa gente non dovrò mai
scrivere, come pensavo di fare poco fa. È impossibile. Guardo ancora una volta i due
ritratti; non è gente ricca. Potrò mandare loro danaro, senza svelarmi, se un giorno
guadagnerò qualcosa. M’aggrappo a questa idea, che è un piccolo punto fermo.
Questo morto è legato alla mia vita; perciò, se voglio salvarmi, devo fare tutto per
lui, promettergli tutto; faccio voto, ciecamente, che vivrò d’ora innanzi soltanto per lui e
per la sua famiglia, e continuo a parlargli con labbra umide, e nel mio profondo c’è la
speranza che in questo modo io mi riscatti, e possa forse uscir salvo di qui, e, più in
fondo ancora, la piccola riserva mentale che dopo ci sarà tempo e si vedrà. Perciò apro il
libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo
l’indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba.
Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval. Io devo diventar tipografo, penso tutto
smarrito, devo diventar tipografo, tipografo...
Dopo mezzogiorno mi sento più calmo. La mia paura era infondata: il nome non mi turba
più. Quella febbre è passata. – Compagno – dico al morto, ma con pacatezza: – oggi a te,
domani a me. Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati
entrambi: che a te ha tolto la vita… e a me? La vita anche a me. Te lo prometto, compagno.
Non dovrà accadere mai più.