Con l’arrivo di Chaiim era cambiato tutto. Era cambiata la mia vita.
Era arrivato in classe da noi a metà dell’anno scolastico. Già una settimana
prima ci avevano preparato a questo bambino speciale, un vero genio, e gran pianista,
figlio di un famoso professore dell’università. E poco dopo Purim, durante l’ora di matematica
la direttrice aveva bussato alla porta e aveva fatto entrare Chaiim. L’avevamo squadrato da capo
a piedi. Sembrava un bambino normale, ma aveva una testa molto grande, come si conviene a un
genio. Anche la fronte era particolare,
scura e molto alta. E poi, cosa rara da noi, aveva dei capelli folti e neri, pettinati
all’indietro. L’avevano messo vicino a Mikael Karni, raccomandando di fare una buona accoglienza
all’ospite.
A quell’epoca ero ancora in una piccola banda di bambini. Facevamo delle cose insieme,
avevamo una parola d’ordine, un nascondiglio e delle “operazioni” da seguire, una casa su un
albero, la solita spia a cui dare del filo da torcere (un certo Kemerman che abitava un piano
sopra di me); insomma, un’autentica banda. Forse dovrei sottolineare che in quei tempi antichi i
bambini giocavano davvero fra loro, non
solo tramite un modem.
Durante l’intervallo dissi alla mia banda che avrei invitato il nuovo, per non farlo
sentire solo. Rimase proprio contento e venne con noi a giocare a pallone. Lo mettemmo
in porta. Non era un gran portiere; anzi, era deboluccio, aveva le mani bucate, ma
mostrava un grande spirito di abnegazione e per questo mi piacque. Ricordo che dissi a Mikah:
«Guarda che parate da suicidio», e Mikah rispose con quella sua voce pesante e indifferente: «Ma
a cosa diavolo gli servono se non prende una palla?»
Finita la scuola tornammo a casa insieme, io, Mikah e Chaiim Stauber.
Loro camminavano e io, come al solito, gli giravo intorno sugli schettini. A quel tempo
vivevo con gli schettini ai piedi, non uscivo di casa senza i miei ingombranti schettini e,
quando tornavo da scuola con Mikah, lui camminava e io gli piroettavo intorno parlandogli da
ogni parte, ed era buffo vederlo perché mi cercava sempre dove non ero più. Quel giorno, quando
Chaiim venne con noi, descrissi i miei cerchi intorno a loro per mostrargli disinvoltamente cosa
sapeva fare un virtuoso degli schettini. Qualche piroetta sul posto, un salto mortale dal
marciapiede, un lungo tratto su una gamba sola nella selva di macchine: il tran tran della mia
vita. Chaiim Stauber sgranava gli occhi e fu quella la prima volta in cui vidi come si
illuminavano,
quasi che qualcuno ci avesse acceso dentro un fiammifero. Aveva proprio una piccola
luminescenza sulla pupilla. Mi accorsi subito che si tratteneva a fatica dal chiedermi di fare
un giro e stavo già valutando quanto avrei potuto ricavarci. Aveva l’aria di essere un bambino
piuttosto ricco. Lo accompagnammo a casa, abitava in una villa di fianco
al nostro isolato e, quando ci fermammo a chiacchierare davanti alla porta venne fuori sua
madre, quasi di corsa, gridando da lontano:
«Chaiim, Chaiimke, com’è andato il primo giorno?». Allora Chaiim ci disse frettolosamente,
a bassa voce: «Non ditele che abbiamo giocato a pallone» e restò fermo a farsi abbracciare e
coccolare, come un bambino piccolo.
«E questi sono i tuoi nuovi amici?» disse sua madre, scrutandoci, dopo essersi quietata.
Avevo la netta sensazione che stesse cercando di intrufolarmisi sotto la pelle, per capire se
ero abbastanza a posto per suo figlio, così assunsi un’espressione
da angioletto e dissi sottovoce: «Buongiorno, signora Stauber», porgendole persino la
mano. Lei mi sorrise con una certa sorpresa e me la strinse. Che mano aveva, che mano...!
Tiepida, morbida e setosa, con delle dita lunghe, delicate, curate, e io, per un
istante, non fui capace di mollarla. Poi ritirai di scatto la mia mano sporca, lorda di
furtarelli, zuffe e colluttazioni, e per mia fortuna ebbi anche la prontezza di nascondere
dietro la schiena la sinistra, con l’unghia del mignolo che mi stavo lasciando crescere per
bellezza (era già la più lunga della classe, forse anche di tutta la scuola).
Fu il mio primo incontro con lei e io, sbalordito dalla sua raffinata bellezza, non osai
più aprir bocca per non farmi scappare che Chaiim aveva giocato a pallone, anche se non
capivo cosa ci fosse da nascondere.
«Per via del pianoforte» spiegò Chaiim l’indomani. Non che il nesso ci fosse molto chiaro,
ma tentò comunque di farci capire che a causa della musica gli era proibito mettere a rischio le
mani e che sua madre stava sempre in apprensione per le sue dita. Mikah se n’era uscito con la
sua risata ebete mentre io, non so cosa m’avesse preso, dissi subito che sua madre aveva tutte
le ragioni e che forse lui non doveva davvero giocare.
Mikah mi guardò sbigottito, io stesso ero sorpreso di quel che avevo detto. Cosa c’entravo
io con le sue dita, cosa me ne importava? Ma nel momento in cui udii le mie parole capii che
stavo dicendo una cosa giusta, ragionevole, persino pura, ed era una delle poche volte in vita
mia in cui sentivo di avere un principio, qualcosa di importante
per cui ero disposto a lottare, anche senza ricavarne alcun vantaggio. Così, per
dimostrare la serietà del mio intento, mi levai subito gli schettini e, tenendoli in mano, mi
misi al passo con Chaiim come una guardia del corpo.
Chaiim sembrava piuttosto stupito di come lo tenevo sotto le mie ali e con una certa
esitazione mi chiese se suonavo anch’io. Scoppiai a ridere: «Come faccio a saper suonare?». E
Mikah: «Lui suona i nervi, e ce li fa venire». Devo dire che da quando Chaiim Stauber si era
unito a noi, tutto quel che Mikah faceva o diceva mi sembrava brutto, stupido e rozzo, e speravo
che Chaiim non pensasse male di me per colpa sua.
L’indomani, a scuola, Chaiim volle a tutti i costi giocare a pallone.
Andai da lui, lo presi da parte e gli spiegai con le buone che era troppo rischioso, ma
lui mi disse che non gliene importava. Cercai di convincerlo, cercai persino di corromperlo, ma
lui non volle sentire ragioni. I bambini avevano già cominciato a urlare che l’intervallo finiva
e dovetti rinunciare. Quel giorno rinunciai anche al ruolo di
attaccante, impegnandomi nella difesa della sua porta. Non uscii mai dalla linea dei
sedici metri e respinsi ogni tentativo di sfondamento da parte del nemico. La mia fu una difesa
così fenomenale che Chaiim rimase completamente disoccupato, a mani vuote, e intatte. Non
ricordo di essere mai uscito così spossato da una partita.
E fu così anche nei giorni seguenti. Chaiim s’ostinava a giocare, e sempre come portiere,
ma io vegliavo su di lui come se fosse una specie rara. Davo calci selvaggi a chiunque osasse
avvicinarsi alla zona delle preziose dita. Ormai non mi comportavo più come un calciatore, agivo
solo in veste di guardia del corpo.
Mi faceva diventare matto, Chaiim. Tutto quello che io gli proibivo, lui subito voleva
farlo, magari solo per irritarmi e preoccuparmi. A volte mi pareva d’essere la bambinaia di un
terremoto. In classe lo guardavo di spalle e sospiravo per le tante, nuove preoccupazioni.
Immaginatevi, arrivai al punto che Chaiim Stauber mi offrì dei soldi in
cambio di un giro sugli schettini e io rifiutai. Persino Mikah, che pareva di gomma, mi
aveva fatto esplicitamente notare che stavo esagerando, ma a me parve che fosse un po’ geloso.
Certo, aveva le sue buone ragioni per esserlo. Questo Chaiim Stauber, al di là delle sue
trame per uscire di testa, era un bambino piuttosto sveglio e interessante. Aveva una mente
enciclopedica. Stavamo allungati per ore, insieme, e io lo ascoltavo. Raccontava degli aborigeni
che vivevano in Australia, degli esquimesi e degli indiani. Una volta era stato in Giappone con
i suoi genitori e raccontò che lì si costruivano case di legno e si coltivavano alberi nani.
Usava un tono di voce pacato e sommesso, pur raccontando le cose più incredibili, sempre con
semplicità e disinvoltura, senza ostentazione. Non tentava minimamente di impressionarmi, si
limitava a raccontare le cose come stavano, solo che già così erano molto più sorprendenti di
tutte le mie fantasticherie. La sera, a letto, cercavo di imitare la sua parlata calma e precisa
mentre diceva per esempio: «In Giappone siamo stati in un posto dove cucinavano le formiche
nella cioccolata. Io non le ho mangiate, perché mia mamma non mi ha lasciato».
Soprattutto per questo lo stimavo: aveva il coraggio di raccontare che non l’avevano
lasciato fare. Perché io, se avessi avuto una storia del genere, avrei immediatamente
trasformato quelle formiche in una prelibatezza.
Ne avrei mangiate un chilo, e le formiche vive avrebbero continuato a solleticarmi nella
pancia, e il cuoco di formiche avrebbe giurato di non aver mai visto in vita sua un bambino
tosto come me, credetemi.
da D. Grossman, Ci sono bambini a zigzag, Milano, Mondadori, 2009, riduzione