Era mercoledì pomeriggio; erano quasi le quattro di quel torrido pomeriggio di metà
maggio, già più caldo che estate, e lui prese la rivoltella dalla borsa di pelle che teneva
sotto il cuscino, se la mise nella tasca dei calzoni, così, semplicemente, uscì dalla stanza
numero quattordici dell’alberghetto vicino a piazzale Duca d’Aosta e, calmo, possente, con quel
corpo possente, sotto l’afa e il polline che volava nell’aria rendendola ancora più
irrespirabile, raggiunse la Stazione Centrale.
E alle quattro e cinquantasette arrivò l’amico, il treno da Ginevra quella volta era in
ritardo, col suo innocente valigino squadrato di metallo, il suo corpo magrolino un po’ curvo,
il viso ossuto lucido di sudore. Lo vide andare alla cassa, mentre fingeva di leggere il
giornale e, come tutte le altre volte, andare poi al banco, ordinare un caffè,
depositare la valigetta squadrata in terra, e tutto senza mai guardarsi intorno,
bravissimo, come se non si conoscessero, mai visti, mai sentito parlare l’uno dell’altro. Invece
l’aveva ben visto.
L’amico bevette il caffè in fretta, e intanto che lo beveva lui gli si avvicinò, e appena
gli fu vicino, però, l’amico scappò via e lasciò la valigetta in terra. Lui la prese, come fosse
sua, e in mezzo a tutta quella folla neppure il poliziotto poteva sapere o capire qualche cosa,
mentre l’amico che gliel’aveva volutamente lasciata era già scomparso a
nascondersi sul treno che parte poco dopo le cinque del pomeriggio per Ginevra. E con la
valigetta in mano lui uscì dal bar.
Questo si chiama, in gergo tecnico, «passaggio a rischio calcolato». Infatti, questo
passaggio di merce, diciamo illegale1, è piuttosto rischioso.
Dopo una volta, due, tre, un buon poliziotto che vi segue può accorgersi della manovra, e
allora è finita. Per questo, in romanesco, viene definito «lo sbrigàmose», perché più
l’operazione di passaggio della valigetta, o del pacco, viene eseguita rapidamente, e più il
rischio è minore.
Era dunque un rischio, ma anche questa volta era andata bene, e lui, Domenico Barone, con
la valigetta, rientrò in albergo, nel suo alberghetto di terza ma pulita categoria, senza
donnacce e senza giovanottelli troppo furbi.
E chiuso in camera aprì subito la valigetta. Non era facile. Non vi erano chiavi. Era una
chiusura a molla, a pressione, ma bisognava sapere dove era la molla da premere. Lui lo sapeva,
premette, e la valigetta si aprì.
Questa volta erano dollari. La settimana prima erano state sterline, la settimana prima
ancora, franchi svizzeri. Adesso erano biglietti da cento dollari, per uno spessore di sei
centimetri e per un’area di 24 cm per 28. C’erano, lì dentro, non meno di cinquanta milioni di
lire italiane, in dollari. Del resto lo sapeva che il minimo dei trasporti era su
e giù quella cifra, ma nonostante fossero mesi che svolgeva quel lavoro non ci si era
ancora abituato. Una valigetta grande come un grosso libro di enciclopedia, con dentro tutti
quei milioni di valuta straniera, gli faceva sempre impressione. Anzi, voleva essere sincero con
se stesso, ogni volta gli veniva la voglia di andarsene via lui, personalmente, con la valigia e
con la bionda, invece di «passarla» al padrone di quei soldi. Ma erano pensieri che cercava di
evitare, di non pensare, perché quelli che facevano girare tutti quei soldi non erano dei
cretini. Sapeva con precisione che, se provava a prendersi solo uno di quei biglietti da cento
dollari, entro due giorni si sarebbe ritrovato sul tavolo di marmo dell’obitorio, col biglietto
ancora da spendere.
Richiuse invece la valigetta, uscì dalla camera portandola con sé, si toccò con piacere la
rivoltella che aveva nella tasca destra dei calzoni, perché lui non era un mancino, e scese nel
salone, dove c’era una cabina telefonica. Il salone era ingombro di vecchi, la cui età, sommata,
raggiungeva l’età dalla fondazione di Roma ai giorni nostri, che stavano seguendo alla
televisione, giovanilmente e sportivamente, una partita di calcio, in attesa però di uno dei
film della famosa e antica serie del mulo parlante.
Nella cabina non arrivava nessun rumore. Lui mise dentro un gettone, formò il numero,
attese che l’apparecchio gli trasmettesse un solo segnale, cioè che al numero che aveva chiamato
si udisse un solo squillo, poi tolse subito la comunicazione. Dopo un momento l’apparecchio fece
clet clet e sputò il gettone. Lo prese e lo rimise dentro
l’apposita fessura. Formò lo stesso numero, e attese: questa volta due segnali. Un attimo
dopo il secondo segnale tolse di nuovo la comunicazione.
Attese un istante e l’apparecchio col suo clet clet sputò un’altra volta il gettone. E lui
un’altra volta lo rimise nella fenditura, formò una terza volta lo stesso numero e attese un
segnale soltanto, poi riattaccò subito, attese che il gettone ricadesse, se lo rimise in tasca e
uscì dalla cabina grondante sudore per il chiuso, e anche per la tensione.
Ma era fatta. Questa era la «comunicazione in muto», perché c’erano anche quelle
in parlato. Si mette il gettone, si fa dare uno squillo solo e poi si riattacca.
Se avesse dato solo questo squillo, soltanto uno, e non avesse più chiamato, questo voleva
dire: «L’amico non è arrivato». Se, dopo aver chiamato con un solo squillo avesse richiamato con
due squilli, e poi basta, senza telefonare più, questo voleva dire: «L’amico è arrivato ma non
ha portato la roba». E se, come aveva fatto, avesse fatto tre chiamate, una con uno squillo, una
con due e una con uno, voleva dire:
«L’amico è arrivato, ha portato la roba, l’ho presa e controllata, vieni a prenderla».
Perché con questi passaggi a rischio calcolato bisogna stare attenti, una volta o l’altra c’è il
poliziotto che vi segue, e meno ci si conosce, tra passatori, meno si parla, meglio è. Inoltre,
quelle telefonate mute erano economiche, da quasi tre mesi usava sempre lo stesso gettone. Al
numero a cui telefonava c’era un furbastro che doveva stare
tutto il giorno all’apparecchio a sentire gli squilli.
* * *
Era sabato sera. Aveva in mente di portare Olimpia prima al cinema, a vedere La notte dei
generali, perché a lei piacevano i film forti. Scese dalla sua stanza nell’alberghetto dei
millenari, e il ragazzotto che era dietro il così detto bureau gli tese una lettera.
– È per lei.
Per strada, mentre andava al caffè dove aveva l’appuntamento con Olimpia, aprì la busta.
C’era dentro una cartolina con una veduta di Genova, corso Italia, vicino a Boccadasse. Sulla
cartolina erano scritte quattro parole in una frase che non aveva alcun senso. Le quattro parole
erano: «Statista centellino ammanierato subappalto».
Si fermò, un po’ per rileggere meglio, un po’ per sorridere di quell’incongrua frase, e un
po’ per rabbrividire di paura, perché quando arrivava uno di quei messaggi c’era solo da tremare
di terrore. Poi tornò subito in albergo, nella sua stanza. Dalla valigia prese uno di quei
vecchi vocabolari rilegati in tela rossa, editi dai Fratelli Treves subito dopo il 1900: era il
codice. Con la cartolina davanti, un foglietto di carta e un pennarello a punta sottile cominciò
a decifrare la prima parola. La prima parola delle quattro del messaggio era «statista». Allora
cercò nel vocabolario la parola «statista» poi, cominciando da questa parola, scese di parola in
parola lungo la colonnina dei vocaboli e al dodicesimo vocabolo si fermò. Il vocabolo era:
«stazione».
Ripeté il lavoro con la parola «centellino». Scese di parola in parola per dodici
vocaboli, e al dodicesimo si fermò. Il dodicesimo vocabolo era: «centrale».
Fece la stessa operazione con «ammanierato», e al dodicesimo vocabolo trovò «ammazzare», e
con «subappalto», e al dodicesimo trovò «subito». Quindi, il testo decifrato del messaggio era:
«Stazione Centrale ammazzare subito».
* * *
Guardò il calendario. Era mercoledì. L’ultimo mercoledì, poi aveva finito quel lavoro.
Erano ancora le tre e mezzo passate; uscì dalla stanza e scese nel salone dell’albergo, dove
quattro o cinque millenari stavano conversando di preistorici avvenimenti e dove vi era anche la
cabina telefonica. Mise il gettone e formò il numero di lei, Olimpia.
– Ciao – le disse appena udì il suo – Pronto? – Esco adesso, non aver paura, tu vai con la
macchina in viale Regina Giovanna, dall’altra parte della strada, davanti al Supermercato.
Arrivo poco dopo le cinque. Stai tranquilla.
– Non sono tranquilla.
– Non piangere, e stai tranquilla. Questo è l’ultimo passaggio che faccio: mi danno gli
altri cinque milioni, e ho finito. Non mi metterò mai più in un giro simile. Stai tranquilla,
Olimpia, bambina mia.
– Udì solo il suo pianto. – Ciao, riattacco, sta’ tranquilla, alle cinque al Supermercato.
– Riattaccò, uscì, salutò la padrona dell’alberghetto che era dietro il bureau, dall’alto,
forse, dei suoi duecento anni, uscì e a piedi, gli piaceva camminare, anche se faceva caldo,
anche se tremava di paura, percorse via Vitruvio fino a via Ferrante Aporti, dove
c’era il palazzo delle Poste e lì vide subito il grassottino e giocondo che già conosceva
e che era vicino al cestino dei rifiuti attaccato a un palo della luce e che subito buttò
nell’argenteo cestino dei rifiuti qualche cosa e poi si allontanò. Subito lui si avvicinò al
cestino e tirò fuori il qualche cosa mentre il grassottino, a distanza di qualche metro,
dopo averlo osservato, se ne andava.
Il qualche cosa era un pacchetto squadrato come una piccola scatola di cioccolatini,
quelle che si prendono quando si va a pranzo da amici per farne loro omaggio. Nell’interno vi
era invece la mina antiuomo. In tempo di guerra quelle mine erano larghe come una grossa pizza
alla napoletana, ma il progresso le ha nanizzate, si portano in giro come pacchetti qualunque.
E lui la portò in giro alla vicina stazione. Salì la scala mobile, comprò un paio di
riviste di grande formato per mimetizzare meglio la scatola, e andò nel bar. Non erano ancora le
quattro. Troppo in anticipo. Dovette attendere, girando da una parte all’altra della galleria di
testa, bevendo ogni tanto un gingerino, fino alle cinque meno dieci, quando nel bar comparve il
magrolino dal naso adunco con la sua valigetta. C’erano i soliti due poliziotti, ma non era
questo che lo preoccupava, e s’avvicinò subito al magrolino che aveva deposto la valigia in
terra: lo toccò come casualmente urtandolo a un braccio e
gli passò il pacchettino, che quello prese subito. Poi si chinò, raccolse la valigetta del
magrolino e se ne andò subito via. Anche il magrolino, col suo pacchetto in mano, bevette in
fretta il suo caffè, poi corse al suo treno, il direttissimo Milano-Ginevra, che stava per
partire. Salì in un vagone semivuoto e attese, sempre col pacchetto sulle ginocchia. Appena il
treno, una decina di minuti dopo, si mosse, andò nella toeletta, si chiuse dentro, strappò
l’elegante nastrino che legava il pacchetto, poi cominciò a svolgere la carta, erano pacchettini
che conosceva bene, pieni di piccoli ma autentici brillanti, e arrivato a svolgere tutta la
carta, lui e metà del vagone esplosero. Tutto il treno vibrò, solo per un miracolo il vagone non
uscì dalle rotaie, ma una studentessa
milanese che andava a passare le vacanze da un’amica svizzera, e che attendeva sulla
piattaforma davanti alla toeletta, esplose anche lei.
Intanto lui, Domenico Barone, con la valigetta, era già uscito dalla Stazione Centrale,
aveva attraversato la piazza, aveva imboccato via Vitruvio, ed era arrivato davanti al suo
alberghetto. Salì in camera sua e sedette sul letto, con la valigetta sulle ginocchia, ansando.
Si sentiva molto stanco. Molto, ma ormai era finita. Basta, basta, non si sarebbe mai più messo
in storie come quelle. Adesso doveva fare solo altre quattro cose. 1. Controllare se la
valigetta conteneva il denaro; 2. telefonare in muto all’amico per avvertirlo che tutto andava
bene e che era pronto al passaggio; 3. andare al Supermercato in viale Regina Giovanna e passare
la valigia all’amico che sarebbe venuto a prenderla; 4. uscire dal Supermercato coi cinque
milioni che l’amico gli avrebbe consegnato, attraversare il viale, saltare dentro la macchina di
Olimpia
che lo aspettava, e andar via con lei. Per qualche settimana la notte avrebbe sognato il
magrolino che saltava in aria appena apriva il pacchetto, ma poi gli sarebbe passata. Cominciò a
eseguire l’operazione 1: la valigetta era la solita, senza serratura, ma con una molla a scatto:
bastava premerla, e la valigia si apriva. Cosa c’era dentro, questa volta? Dollari, marchi
tedeschi, sterline? Trovò facilmente la molla, ormai era pratico, premette la molla, e tutto
saltò in aria, lui, la stanza con le pareti, porte e finestre esplosero; se la villetta a tre
piani che costituiva l’albergo-ricovero di tanti vecchi fosse stata colpita da una bomba in
bombardamento aereo, l’effetto non sarebbe stato molto maggiore. Una mina antiuomo non ha nulla
da invidiare a una bomba d’aereo.
* * *
– Mi scusi, dottore – disse il brigadiere Mazzarelli, un romano, sforzandosi di parlare,
di fronte al suo più alto superiore, senza far sentire l’accento romano – anch’io al principio
ho creduto che si trattasse di attentati per l’Alto Adige. Una mina che esplode in una toeletta
del direttissimo per Ginevra, un’altra che distrugge mezza villetta in via Vitruvio a Milano e
ammazza tre persone, non potevano essere che attentati. I giornali
hanno parlato, appunto, solo di attentati politici. Ma la verità è molto diversa.
– Sì, è vero – disse il vicequestore – ho letto il rapporto. Si tratta di contrabbando di
valuta e di preziosi. Ma come siete riusciti a scoprirlo?
– Vede dottore, lei ha letto il rapporto, quindi capisce. Tanto all’uomo che veniva da
Ginevra con la valigia piena di soldi da far passare, guardi la foto, è un magrolino con un
nasone ossuto, quanto a quello grosso, guardi la foto, che al bar della stazione
ritirava la valigia, era stato mandato lo stesso messaggio: «Stazione Centrale ammazzare
subito». Questi stupidi non sanno che, in organizzazioni così potenti, a un certo punto i capi
hanno bisogno di liberarsi di gente o insicura, o debole, o che sa troppe cose. Così quello di
Milano ha ricevuto l’ordine di uccidere quello che veniva da Ginevra e gli ha consegnato il
pacchetto con la mina. E quello che veniva da Ginevra ha ricevuto l’ordine di uccidere quello di
Milano e gli ha consegnato una valigetta con la mina dentro. Se ne liberano facendoli ammazzare
tra di loro. È stata una donna che
ci ha messi sulla traccia giusta: Olimpia, l’amica del grosso di Milano.
Ci ha dato indicazioni, li abbiamo presi quasi tutti.
– Bravi – disse il vicequestore, alzandosi.
(da G. Scerbanenco, Milano calibro 9, Milano, Garzanti, 1993)