Legò il pesce a prua e a poppa e al banco centrale. Era così grosso che fu come legare una
barca più grossa affiancandola alla sua. Tagliò un pezzo di lenza e legò la mandibola inferiore
del pesce al rostro in modo che non gli si aprisse la bocca e potessero navigare nel migliore
dei modi. Poi armò l’albero e la vela rattoppata prese il vento, la barca incominciò a muoversi
e, mezzo sdraiato a poppa, il vecchio diresse per sud-ovest. Non aveva bisogno di una bussola
per sapere dov’era il sud-ovest.
Aveva bisogno soltanto di sentire l’aliseo e la pressione della vela.
«Bisognerà che metta in acqua una lenza con un amo a cucchiaio per cercar di procurarmi
qualcosa da mangiare e da succhiare». Ma non riuscì a trovare il cucchiaio e le sardine erano
marce. Così prese con la gaffa un po’ di alghe gialle mentre passavano e le scrollò in modo che
i gamberetti che vi erano attaccati cadessero sul fasciame della barca. Ve n’erano più di dodici
e saltarono scalciando come pulci
di mare. Il vecchio staccò loro la testa col pollice e l’indice e li mangiò masticando il
guscio e la coda. Erano molto minuscoli, ma sapeva che erano nutrienti e avevano
un buon sapore. Il vecchio aveva ancora due sorsi d’acqua nella bottiglia e ne bevve
mezzo sorso dopo aver mangiato i gamberetti. La barca procedeva bene tenuto conto del
carico e il vecchio la governava tenendo la barra del timone sotto il braccio. Vedeva il pesce e
gli bastava guardarsi le mani e sentirsi la schiena contro la poppa per sapere che tutto era
veramente avvenuto e non era un sogno. Una volta, quando verso la fine stava così male, aveva
pensato che forse era un sogno. Poi quando
aveva visto il pesce uscire dall’acqua e restare sospeso, immobile, nel cielo prima di
cadere, era stato certo che qualcosa di molto strano stava succedendo, e non poteva crederci.
Poi non aveva più veduto distintamente, anche se ora vedeva di nuovo come sempre.
Ora sapeva che c’era il pesce e le mani e la schiena non erano un sogno.
«Le mani guariscono in fretta» pensò. «Ho fatto uscire il sangue vivo e l’acqua salata le
curerà. L’acqua scura del vero golfo è il più grande medico che esista. La sola cosa che devo
fare è di conservare la mente lucida. Le mani hanno fatto il loro dovere e navighiamo bene. Con
la bocca chiusa e la coda ritta, navighiamo come fratelli».
Poi la mente incominciò a confondersi un poco, e il vecchio pensò:
«È lui che porta me o sono io che porto lui? Se lo rimorchiassi a poppa non ci sarebbero
dubbi. Neanche se il pesce fosse sulla barca, senza più dignità, ci sarebbero dubbi». Ma stavano
navigando insieme legati a fianco a fianco e il vecchio pensava: «Sia pure lui che porta me, se
gli fa piacere. Ho vinto io soltanto con l’inganno, e lui non voleva farmi male».
Navigavano bene e il vecchio immerse le mani nell’acqua salata e cercò di conservare la
mente lucida. Vi erano alti cumuli di nubi e abbastanza cirri sopra di essi, per cui il vecchio
sapeva che il vento sarebbe durato tutta la notte. Il vecchio guardava continuamente il pesce
per essere certo che fosse vero. Passò un’ora prima che il primo pescecane lo azzannasse.
Il pescecane non fu un caso. Era salito dal fondo del mare quando la nube scura di sangue
si era allargata e dispersa nel mare profondo un miglio. Era salito così in fretta e con così
assoluta mancanza di cautela che aveva aperto la superficie dell’acqua azzurra e si era esposto
al sole. Poi era ricaduto in mare e aveva trovato la scia, e aveva incominciato a nuotare nella
direzione tenuta dalla barca e dal pesce.
A volte perdeva la scia. Ma la ritrovava sempre, o almeno ne trovava le tracce, e nuotava
veloce e resistente nella direzione giusta.
Era un grossissimo pescecane Mako fatto per nuotare veloce come il pesce più veloce del
mare ed era bello in ogni sua parte tranne nelle mascelle. La schiena era azzurra come quella di
un pescespada, e la pancia argentea e la pelle era liscia ed elegante. Aveva le forme di un
pescespada a parte le mascelle enormi, serrate adesso che nuotava in fretta, appena sotto la
superficie con l’alta pinna dorsale che fendeva
l’acqua senza vibrazioni. Dentro il doppio labbro chiuso dalle mascelle, tutte le otto
file di denti erano inclinate verso l’interno. Non avevano la solita forma piramidale che hanno
i denti di quasi tutti i pescecani. Avevano la forma di dita umane contorte come artigli. Erano
lunghi quasi come le dita del vecchio e avevano bordi taglienti e affilati come rasoi su tutt’e
due i lati. Questo era un pesce fatto per nutrirsi di tutti i pesci del mare tanto veloci e
forti e ben armati da non conoscere altri nemici. Ora all’odore più fresco della scia accelerò
l’andatura e l’azzurra pinna dorsale fendé l’acqua.
Quando il vecchio lo vide giungere capì che questo era un pescecane che non aveva la
minima paura e avrebbe fatto esattamente tutto quello che voleva. Preparò la fiocina e diede
volta alla sagola mentre osservava il pescecane avvicinarsi. La sagola era corta perché mancava
il pezzo tagliato per legare il pesce.
Il vecchio ora aveva la mente lucida e pronta ed era ben deciso, ma aveva poca speranza.
«Era troppo bello per durare» pensò. Diede un’altra occhiata al grande pesce mentre guardava il
pescecane che si avvicinava. «Potrebbe anche essere stato un sogno» pensò. «Non posso impedirgli
di colpirmi ma forse riesco a prenderlo. Dentuso» pensò. «Maledetta tua madre».
Il pescecane si accostò alla poppa e quando lo colpì il vecchio vide la bocca che si
apriva e gli strani occhi e il colpo tintinnante dei denti quando si immersero nella carne poco
sopra la coda. La testa del pescecane era fuori dell’acqua e la schiena ne sporgeva e il vecchio
udì il rumore della pelle e della carne che si lacerava nel grosso pesce, quando scagliò la
fiocina nella testa del pescecane in un punto in cui la linea tra gli occhi si intersecava con
la linea che gli saliva dal naso. Queste linee non esistevano. Esistevano soltanto la pesante
affilata testa azzurra e i grandi occhi e le tintinnanti mascelle sporgenti che inghiottivano
ogni cosa. Ma quello era il punto in cui si trovava il cervello e il vecchio lo colpì. Lo colpì
con le sanguinanti mani molli, lanciando una buona fiocina con tutta la sua forza. Colpì senza
speranza ma con decisione e totale malevolenza.
Il pescecane si rivoltò e mostrò al vecchio l’occhio senza vita, e poi si rivoltò di nuovo
avvolgendosi in due giri di sagola. Il vecchio sapeva che era condannato, ma non si sarebbe
rassegnato. Poi, rivoltato sulla schiena, con la coda sferzante e le mascelle tintinnanti, il
pescecane sbatté l’acqua come un motoscafo. L’acqua era bianca sotto i colpi della coda e per
tre quarti il corpo era visibile sull’acqua quando la sagola si tese, vibrò e si spezzò. Il
pescecane rimase disteso un momento sulla superficie, e il vecchio lo guardò. Poi affondò
lentamente.
– Si è portato via quasi venti chili – disse il vecchio, ad alta voce. «Si è portato via
anche la fiocina e tutta la sagola» pensò. «E ora il mio pesce perde di nuovo sangue e ne
verranno degli altri».
Non gli piaceva più guardare il pesce da quando questo era stato mutilato.
Quando il pesce era stato colpito fu come se fosse stato colpito lui stesso.
«Ma ho ucciso il pescecane che ha colpito il mio pesce» pensò. «Ed era il dentuso più
grosso che abbia mai visto. E Dio sa che ne ho visti di grossi».
«Era troppo bello per durare» pensò. «Ora vorrei che fosse stato un sogno e che non avessi
preso il pesce e fossi solo nel mio letto coi giornali».
– Ma l’uomo non è fatto per la sconfitta – disse. – L’uomo può essere ucciso, ma non
sconfitto.
«Però mi dispiace di aver ucciso questo pesce» pensò. «Ora comincia il brutto, e non ho
neanche la fiocina. Il dentuso è crudele e capace e forte e intelligente. Ma io sono stato più
intelligente di lui. Forse no» pensò. «Forse ero soltanto armato meglio».
– Non pensare, vecchio – disse ad alta voce.
– Naviga in questa direzione e preparati a quel che avverrà.
(da E. Hemingway, Il vecchio e il mare, Milano, Mondadori, 1981)