Kengah aprì le ali per spiccare il volo, ma l’onda densa fu più rapida e la
sommerse completamente. Quando tornò a galla la luce del giorno era
scomparsa e, dopo aver scosso il capo con energia, capì che la maledizione
dei mari le stava oscurando la vista.
Kengah, la gabbiana dalle piume d’argento, tuffò varie volte la testa sott’acqua, sinché
qualche filo di luce non raggiunse le sue pupille coperte
di petrolio. La macchia vischiosa, la peste nera, le incollava le ali al corpo,
così iniziò a muovere le zampe sperando di potersi allontanare rapidamente
a nuoto dal centro dell’onda scura.
Con tutti i muscoli tormentati dai crampi per lo sforzo, raggiunse finalmente
il limite della macchia di petrolio e sentì il fresco contatto dell’acqua pulita. Quando,
a forza di sbattere le palpebre e di tuffare la testa, riuscì a pulirsi gli occhi, guardò il
cielo, ma vide solo alcune nuvole che si frapponevano tra il mare e l’immensità della volta
celeste. I suoi compagni dello stormo del Faro della Sabbia Rossa dovevano volare ormai lontano,
molto lontano.
Era la legge. Anche lei aveva visto altri gabbiani sorpresi dalle mortifere onde nere e,
nonostante il desiderio di scendere a offrire loro un aiuto tanto inutile quanto impossibile, si
era allontanata, rispettando la legge che proibisce di assistere alla morte dei compagni.
Con le ali immobilizzate, incollate ai corpi, i gabbiani erano facile preda dei grandi
pesci, o morivano lentamente, asfissiati dal petrolio che penetrando
fra le piume tappava loro tutti i pori.
Era questa la morte che la aspettava e desiderò scomparire presto tra le
fauci di un grosso pesce.
La macchia nera. La peste nera. Mentre aspettava la fine fatale, Kengah
maledisse gli umani.
–Ma non tutti. Non devo essere ingiusta – stridette debolmente.
Spesso, dall’alto, aveva visto come grandi petroliere approfittavano delle giornate di
nebbia costiera per andare al largo a lavare le loro cisterne.
Rovesciavano in mare migliaia di litri di una sostanza densa e pestilenziale
che veniva trascinata via dalle onde. Ma a volte aveva visto anche delle piccole
imbarcazioni che si avvicinavano alle petroliere e impedivano loro di svuotare le cisterne.
Disgraziatamente quelle barche ornate dai colori dell’arcobaleno4 non sempre arrivavano in tempo
per impedire l’avvelenamento dei mari.
Kengah passò le ore più lunghe della sua vita posata sull’acqua, chiedendosi atterrita se
per caso non la aspettava la più terribile delle morti: peggio che essere divorata da un pesce,
peggio che patire l’angoscia dell’asfissia, era morire di fame.
Disperata all’idea di una fine lenta si agitò e con stupore si accorse che il petrolio non
le aveva incollato le ali al corpo. Aveva le piume impregnate di quella sostanza densa, ma
almeno poteva spiegarle.
– Forse ho ancora una possibilità di uscire da qui e volando in alto, molto
in alto, forse il sole scioglierà il petrolio – stridette Kengah.
Le tornò alla mente una storia, raccontatale da un vecchio gabbiano delle
isole Frisoni; parlava di un umano chiamato Icaro che, per realizzare il sogno del volo,
si era costruito delle ali con piume di aquila ed era volato in alto, vicinissimo al sole, tanto
che il calore aveva sciolto la cera con cui aveva
incollato le piume ed era precipitato.
Kengah batté energicamente le ali, ritirò le zampe, si innalzò di un paio di palmi e
ricadde sulle onde. Prima di tentare ancora si immerse e agitò le ali sott’acqua. Questa volta
salì di un metro prima di cadere.
Quel dannato petrolio le incollava le piume della coda, di modo che non riusciva a
governare il decollo. Si tuffò ancora una volta e con il becco cercò di tirar via lo strato di
sporco che le copriva la coda. Sopportò il dolore delle piume strappate e finalmente vide la sua
parte posteriore un po’ meno lurida.
Al quinto tentativo Kengah riuscì a spiccare il volo.
Batteva le ali con disperazione perché il peso della cappa di petrolio non le permetteva
di planare. Un solo attimo di riposo e sarebbe precipitata. Per
fortuna era una gabbiana giovane e i suoi muscoli rispondevano adeguatamente.
Guadagnò quota. Senza mai smettere di battere le ali guardò giù e vide la costa
profilarsi8 appena come una linea bianca. Vide anche alcune barche che si muovevano come
minuscoli oggetti su un panno blu. Volò ancora più alto, ma il sole non ebbe gli effetti
sperati. Forse i suoi raggi emanavano un calore troppo debole, o la cappa di petrolio era troppo
spessa.
Kengah capì che le forze non le sarebbero durate ancora a lungo e, cercando
un posto per scendere, volò verso l’entroterra, seguendo la serpeggiante
linea verde dell’Elba.
Il movimento delle sue ali si fece sempre più lento e pesante. Perdeva vigore.
Adesso non volava più così in alto. In un disperato tentativo di riprendere quota chiuse
gli occhi e batté le ali con le ultime energie. Non sapeva per quanto tempo era rimasta a occhi
chiusi, ma quando li riaprì stava sorvolando un’alta torre ornata da una banderuola d’oro.
–San Michele!– stridette riconoscendo il campanile della chiesa di Amburgo.
Le sue ali si rifiutarono di continuare a volare.
da L. Sepùlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Guanda,
Parma 2002