Un sabato pomeriggio, Luca Filippi uscì dal giardino di casa, situato a
non molta distanza da quello di Renzi, e portò a passeggiare il suo amatissimo Billo, un
bassottino dotato di intelligenza e simpatia inversamente
proporzionali alla sua statura. Trovandosi a breve distanza dalla sala giochi, fu tentato
di fermarsi per una mezz’ora: entrò, fece accucciare Billo accanto a sé e si concentrò sul
video. Erano passati dieci minuti quando alle sue spalle sentì una voce che conosceva bene: –
Guarda chi c’è, il Filippino! – E poi, con una risata: – E s’è portato pure l’alano di scorta!
Luca si girò, incrociò lo sguardo di Quirino Moroni e lo salutò con il
confidenziale “ciao”, ma l’altro, reso più smargiasso dalla compagnia degli
amici teppistelli, lo gelò intimandogli: – Muoviti, lasciami il posto, voglio
gioca’ io!
Poiché c’erano altre postazioni libere, Luca non accennò a muoversi, anzi
tornò a voltarsi verso il video per riprendere a giocare. L’altro lo prese come
un affronto e reagì furioso, spintonandolo fino a scaraventarlo brutalmente
a terra, con grande spasso del branco che l’accompagnava. Nel vedere il suo padroncino
maltrattato, Billo abbaiò avventandosi verso il bullo, ma, come se non aspettasse altro, questo
lo investì con una scarica di calci. Indignato, Luca gli saltò addosso, ma Quirino, dopo averlo
preso per la gola, gli intimò: – Il tuo bassotto lo prendo io: portami cinque sigarette per me e
i miei amici sennò non lo rivedi più.
Filippi si chinò sul cane che continuava a guaire e, mentre l’accarezzava,
propose un compromesso: – Adesso non posso perché i soldi che avevo li
ho spesi qui. Le sigarette te le porto a scuola.
Moroni scambiò un’occhiata con gli amici e uno di loro, con sarcastica
generosità, concesse: – Tanto dove scappa, se poi a scuola non te le
porta?
Ma Quirino si riservò l’ultima parola: – Hai sentito? E diglielo, a quel filosofo
del professore, come s’impara a diventa’ uomini!
Luca fece appena in tempo a prendere in braccio il suo bassotto, che uno
degli apprendisti bravacci s’intromise tracotante: – E no, questo deve cammina’ , voglio
proprio vede’ come si trascina. – Glielo strappò dalle mani e lo centrò con un calcio, come
fosse un pallone.
Filippi gli si buttò contro con tutta la sua rabbia, ma l’altro, più alto di una
spanna e più prestante, lo colpì con un violento pugno dritto fra naso e occhi. Mentre
Luca si portava le mani sul viso, la ciurmaglia, accortasi che stava accorrendo il gestore,
abbandonò di corsa la sala. Luca fu soccorso alla
meglio e tenne duro nel sostenere di non conoscere gli aggressori. E non ne
rivelò i nomi neppure a casa, quando lo videro tornare con il naso tumefatto
e un occhio pesto. – Sono stati dei balordi – fu la sua sommaria spiegazione.
– Hanno preso a calci Billo e io ho cercato di difenderlo.
Il lunedì a scuola non si videro né Filippi né Moroni, ma nessuno, nemmeno
il professore, sospettò una relazione fra le due assenze.
Nel pomeriggio Marcello Renzi si affacciò all’uscio di Luca, com’era
reciproca abitudine data la vicinanza delle loro abitazioni, per accertarsi
dei motivi della sua assenza e per aggiornarlo in merito alle lezioni della
mattinata e ai compiti per casa. Quando Luca gli si presentò con l’occhio
semichiuso e il naso ancora un po’ gonfio e gli fornì la stessa spiegazione
sommaria che aveva dato ai propri genitori, Marcello ebbe il sospetto che
il compagno non fosse del tutto sincero e volle accertarsene: – Qui intorno
circolano delinquenti e drogati, ma di quelli della nostra età non possiamo
aver paura. E dobbiamo farglielo capire, colpo su colpo, sennò quelli se n’approfittano,
si credono padreterni e continuano a spadroneggiare.
Luca, a me lo puoi dire: possibile che non ne hai riconosciuto nemmeno
uno?
Il ragazzo tacque, imbarazzato, indeciso. E Marcello lo incalzò: – Se sai
chi è stato, devi parlare. Non avrai mica paura?
Gli occhi di Luca si riempirono di lacrime, tanto era ancora pieno di rabbia.
E Marcello non gli dette tregua:
– Dài, parla, di me puoi fidarti, lo sai. Io lo conosco ‘sto bel campione di
coraggio?
“Altroché!” stava per rispondere Luca, ma non ce ne fu bisogno, tanto fu
eloquente la sua espressione.
– Non mi dirai che nel branco c’era pure quella bestia di Moroni! –
esclamò infatti Marcello.
Luca esitò prima di scuotersi: – Marcello, pensi sempre che possiamo
formare una bella classe?
– Ma che c’entra? Quello è una carogna e per lui non ci può essere posto
nella classe che vogliamo.
– E allora non sarà mai bella.
– Bravo, quello ti gonfia e tu gli vuoi portare i cornetti con la nutella. Io,
invece, se l’incontro, gli spacco la faccia.
– Per favore, lascia stare. Pensa se viene a scoprirlo il professore! Poveraccio, con
tutto quello che s’aspetta da noi!
– L’hai detto: il professore s’aspetta che diventiamo uomini, e uomini non ci diventiamo
se ci caliamo le brache. E poi, credi che oggi o domani ‘ste porcate non si vengano a sapere?
– È questo che ti volevo dire: aspettiamo prima di muoverci, Promettimelo.
Luca era stato attento a non far trapelare il ricatto delle sigarette, anche
perché in cuor suo sperava che Quirino rinfoderasse i suoi minacciosi propositi.
E invece, quando due giorni dopo, rientrati a scuola, si incontrarono, Moroni lo chiamò in
un angolo e gli chiese, sfrontato e insolente, a denti stretti: – Le hai portate, microbo?
Luca fece di no con la testa e Quirino, stizzito, gli piazzò un violento manrovescio in
piena faccia. Fu un autogol, perché lo vide Perelli che, già a
conoscenza del precedente confidatogli da Renzi, richiamò subito l’attenzione
del compagno. Senza pensarci due volte, Renzi e Perelli affrontarono insieme il
prepotente.
– Con le tue bravate devi farla finita, sennò…
– Sennò?
– Sennò da questa classe te ne vai.
– E chi lo dice, voi?
– Sì, noi.
Moroni li sfidò con una risata e Renzi gli assestò uno schiaffone: – Questo, intanto, te
lo rimanda Luca. E se ti muovi, qui dentro ti facciamo nero, te e le carogne come te. Noi non
abbiamo bisogno di ricorrere al preside, perché
poi quello sarebbe anche capace di chiamare i genitori e perfino la polizia
e per te sarebbero guai. Le cose ce le vediamo fra noi. Perciò, deciditi: o la
fai finita o smammi.
Non ci scappò la rissa perché in quel momento entrò la professoressa Barbieri, ma con il
lampo dello sguardo Moroni non trasmise certo messaggi
di resa e di conciliazione. L’insegnante se ne accorse e chiese spiegazioni. Nonostante
l’intesa omertosa della classe, riuscì a carpire qualche informazione che le fece intuire la
verità. Essendo la coordinatrice della classe, ne parlò subito al preside. E, poiché sul conto
di Moroni questi aveva già raccolto più di una lamentela, non esitò a convocarne il padre. Ne
avrebbe fatto volentieri a meno, conoscendo il tipo, ma non poteva sottrarsi al suo dovere. Del
resto, sapendo a che cosa andava incontro, era più che preparato a prendere l’uomo per il suo
verso. Quando se lo trovò davanti, perciò, lo informò con estremo tatto delle prodezze del
figlio, attento a non provocarne un’altra sfuriata; ma l’altro, dopo averlo ascoltato con
degnazione, quasi con fastidio, lo lasciò di stucco:
– Se non ho capito male, mio figlio quelle che lei considera bravate le ha
combinate fuori della scuola, è così?
Il preside confermò, e Moroni senior, quasi compiaciuto, sbuffò: – Ma
allora a lei che gliene frega? La scuola che c’entra? Di che vi state a preoccupa’?
Allibito, il professor Martini tentò un’estrema reazione: – Ma lei lo sa che
suo figlio va anche in giro con il coltello?
Moroni ribatté scocciato: – La solita storia. Il coltello è importante saperlo
usare, lei forse non lo usa a tavola? Io dell’uso che ne fa mio figlio mi fido. Comunque,
in classe non lo porta, glielo posso garantire.
– Già – concluse amaro il preside – se poi lo porta e lo usa fuori della scuola, a me non
deve interessare. Tranquillo lei, non ho altro da comunicarle, signor Moroni. Buona giornata.
La sdegnata riprovazione del consiglio di classe, appena il preside lo mise
al corrente dell’azione teppistica dell’alunno Moroni e dell’insensata reazione
del padre, fu unanime. E la professoressa Barbieri ne approfittò per tornare a
punzecchiare il collega Rinaldi: – Con un padre così, come speri di far valere le tue idee?
– A me non interessa il padre: non è lui di cui mi devo di preoccupare, ma il figlio.
– Ma lo sai che quel ragazzo conosce solo il linguaggio della violenza?
– Pensi che gliene sia stato insegnato uno diverso?
– E già, ci sei tu a provvedere! Ma fino a quando credi di poter continuare a giocare con
le tue illusioni?
– Rispondimi tu, invece: siamo o no degli educatori? Gandhi la pensava come te o come me?
E a chi di noi due darebbe ragione se fosse qui?
La professoressa Barbieri smise di colpo l’aria sottilmente beffarda e gli
tese la mano.
da M. Pennacchia, Oltre il suono della campanella, Loescher, Torino 2009