Ce l’avevo fatta. Ero salito su quell’imbarcazione in mezzo a centinaia di
altri, alcuni dei quali, dopo tanti giorni passati insieme, nel garage e nel camion, ormai erano
diventati miei amici.
Io che non avevo mai visto il mare prima d’allora, per la prima volta scrutavo quella
distesa che si perdeva lontanissima, scura contro il cielo notturno. L’odore: era stato l’odore
a colpirmi appena arrivato in quel luogo sconosciuto, in piena notte. Si trattava di un porto,
ma non potevo saperlo. C’erano navi immense attraccate ai moli: gli scafi, a malapena visibili
alla fioca luce dei pochi lampioni accesi, parevano torri che spuntavano dall’acqua. Un vento
umido, leggero, mi era penetrato nel naso pizzicandomi la fronte, e quell’odore mi risvegliò di
colpo dalla sonnolente ubbidienza che fino ad allora mi aveva accomunato a decine di altri,
saltati dal camion come tante capre, per seguire gli ordini rabbiosi di poche ombre che
indicavano una direzione, proprio lì davanti, oltre il parapetto, giù verso lo sciabordio
d’acqua.
Di nascosto, seppure con l’assenso implicito di qualche autorità invisibile, ci stavano
caricando su una cosa traballante, instabile a pelo dell’acqua, che solo con moltissima fantasia
potevamo chiamare nave.
Ma quell’aria frizzante mi aveva messo dentro un’euforia che francamente, a ripensarci,
era proprio fuori luogo. In quell’ora notturna, in mezzo a centinaia di compagni di sventura,
alcuni che borbottavano una preghiera, le donne che piangevano sommessamente, io mi sentivo
pieno di energia, i muscoli tesi: avrei potuto fare miglia di corsa, saltare cento fosse,
lanciarmi nel vuoto. Non avevo paura, ma un folle desiderio di partire e attraversare quella
superficie buia che si muoveva come la pelle di un enorme animale nervoso, ma il cui respiro era
come l’essenza profumata di un fiore raro…
– Che fai, Atom, canti? – mi chiese in un bisbiglio un amico, Ahmed.
Veniva dall’Egitto, e per arrivare fin lì si era nascosto per due giorni dentro una cassa,
in un camion che trasportava pentolame.
– Sto pregando – risposi in fretta. Non mi ero accorto che stavo canticchiando tra me e
me. Potrei dire: per farmi coraggio, ma ricordo benissimo che in quel momento provavo una
sensazione di felicità.
Improvvisamente ero libero. Ero finalmente cresciuto, ero diventato un uomo in mezzo ad
altri uomini. Ero padrone di me stesso. Non avrei più ricevuto ordini da mio padre né sarei
stato punito per qualche stupida questione: ora la mia vita dipendeva da me, e me ne rendevo
conto proprio in quel momento in cui, stipato in mezzo a quegli adulti spaventati, mi sentivo
coraggioso come un guerriero.
Non ebbi paura neppure quando la barca si staccò dal molo affidandosi all’acqua: e l’onda,
che in un primo momento pareva volerci ributtare indietro, con la sua cresta minacciosa leccò
come un leone affamato i fianchi rugginosi dell’imbarcazione e ci lasciò passare perché, come
ogni felino che si rispetti, ci avrebbe riagguantato più avanti, con una zampata definitiva.
E così in effetti è andata. L’immenso felino ci aspettava al largo, dove niente avrebbe
potuto salvarci dal suo attacco: solo allora, infatti, scrollò la sua lunga schiena scuotendo
paurosamente la chiatta in cui, incollati gli uni agli altri, tutti noi ci eravamo messi a
gridare di terrore e c’inzuppavamo d’acqua salata, pregando Dio misericordioso di salvarci. E
dopo aver giocato con la nostra carretta come un topolino, il grande felino sfoderò gli artigli,
pronto a inghiottirsi tutta quella bagnarola in un solo boccone.
È stato allora che ho scoperto che c’è un altro modo ancora per sparire, non meno orribile
degli altri ed è quello di finire direttamente in bocca al mare perché qualcuno ti solleva di
peso e ti ci butta dentro.
E quel qualcuno erano i marinai, che ora afferravano alcuni di noi a caso e li spedivano
direttamente tra le fauci del felino per placarlo.
Doveva esserci qualcosa di potente in quel rito crudele perché in effetti, dopo che finii
nella bava gelida del mare, la carretta riuscì a superare una gobba immensa sparendo ai miei
occhi, lontana, mentre io, che fino a poco prima mi ero sentito tanto fiero di me, sprofondavo
nell’acqua freddissima, giù come un sasso. E in questo modo abbastanza stupido stavano per
finire la gloriosa avventura, le belle speranze e le carriere di Atom.
Io, che sono figlio della terra, mi aspettavo che l’aiuto provenisse dall’alto o dalla
superficie, da un uomo, da una nave. Ma la salvezza è arrivata dalle profondità: mai avrei
potuto immaginare che vi fossero figli del mare pronti a venirmi in soccorso, creature che non
somigliano in nulla a nessuno degli animali che fino ad allora avevo conosciuto, nutrito,
pulito, guidato o sopportato. E invece, confusi tra le onde e ad esse molto simili (forse anche
per la mia miopia), quasi un unico movimento del mare, eccoli: un banco di pesci grigio-azzurri,
le cui enormi schiene s’incurvavano sulla superficie dell’acqua, come onde un poco più scure.
Per un attimo ho temuto che fossero venuti per farmi a pezzi. Ma proprio in quel momento,
mentre pensavo fosse davvero finita, quei pesci si sono suddivisi, e due di loro mi si sono
accostati con dolcezza, come temessero di ferirmi. Quindi, ponendosi di lato alla tavola, hanno
preso a sospingerla in una direzione opposta a quella verso cui
il mare mi stava trascinando.
Con sicurezza, i pesci mi portavano via di lì, prendendo sempre maggiore velocità, ma ben
attenti a che non cadessi e finissi sott’acqua, e tenessi fuori la testa per prender aria.
Perché anche loro, come nuotatori esperti, emettevano grandi respiri: correvano sul mare e
buttavano fuori il fiato, mentre scivolavamo via rapidamente. Dietro di noi, una lunga scia
bianca, su cui vigilavano gli altri pesci che ci seguivano dappresso.
Ho continuato a parlare di pesci perché allora davvero pensavo lo fossero, ma erano invece
quanto di più simile a me potessi incontrare nel mare. Io figlio della terra e loro, figli del
mare, apparteniamo alla stessa specie, ma questo l’ho saputo molto tempo dopo, nella mia nuova
vita. In quel momento, mentre quegli animali mi trasportavano verso la costa che pareva d’un
tratto vicina, ho pensato che fossero creature magiche, come quelle delle antiche storie del mio
villaggio, di cui la sorella di mamma, zia Asase, mi aveva raccontato tante volte.
Se non ci fosse stata zia Asase, con le sue storie di animali portentosi, io non mi sarei
salvato, perché in mezzo al mare, vedendo arrivare quelle bestie sconosciute, grandi e
fluttuanti, sarei impazzito di paura e mi sarei lasciato annegare. Grazie ad Asase e alle sue
storie, invece, io ho creduto nella magia del mare, ho creduto negli animali che giungono
imprevisti a soccorrere gli uomini, e ancor prima che ne conoscessi il nome e l’appartenenza, mi
sono affidato ai miei fratelli marini.
Così, mi sono lasciato salvare dai delfini.
In questi sei anni ne sono successe di cose. Per esempio, non porto affatto gli occhiali
che tanto desideravo, ma da parecchio tempo indosso le lenti a contatto, qualcosa che non avrei
potuto neanche lontanamente immaginare quando vivevo al villaggio.
Ho diciassette anni: da quando mi sono salvato festeggio il mio compleanno il 2 ottobre,
perché non avevo la più pallida idea di quando fossi nato, in quale giorno e in quale anno, e i
medici mi hanno attribuito un’età sui dieci-undici anni. Abbiamo abbondato, perché io avevo la
sensazione di essere un po’ più vecchio, visto che mio padre mi ripeteva da tempo che ormai ero
adulto. Ma si trattava di un secolo fa, quando ero ancora in Africa e tutto aveva un’altra
prospettiva, compresa quella parte della vita che qui si chiama adolescenza e nel mio villaggio
non esiste neppure: o sei bambino o sei adulto, punto.
Sono a tutti gli effetti un cittadino italiano. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stata
questa l’identità con cui sarei entrato nel mirabolante nuovo millennio?
Ma mi rendo conto che il mio arrivo in questo paese è quasi una leggenda: portato in
braccio dai delfini come un figlio del mare! Un’esperienza che tuttavia non posso raccontare a
nessuno, non solo perché nessuno mi prenderebbe sul serio (anzi, qualcuno mi direbbe: “Sì,
d’accordo, sei parente di quello che camminava sulle acque”), ma anche perché è un segreto e
comprometterebbe la mia residenza-cittadinanza-eccetera eccetera che Toni si è procurato per me.
Toni è la persona che mi ha tratto in salvo dal mare sulla sua barca.
Anche lui non può raccontare a nessuno l’avventura con il banco di delfini che trascinava
il corpo di un ragazzino, cioè io; ma mi ha preso a bordo, mi ha avvolto in una coperta come si
fa con i naufraghi e mi ha parlato con dolcezza. La sua voce era gentile, e anche se non capivo
niente di quello che mi diceva, anche se ero proprio sfinito, prima di addormentarmi (o svenire)
ho ringraziato Dio che mi aveva mandato quest’uomo buono, in una barca bianca con una vela
gonfia come una nuvola, che sembrava scesa direttamente dal cielo per salvarmi.
Così sono nato per la seconda volta. Toni mi ha portato a casa sua e si è dato da fare
come un matto per la mia identità. Ero un bambino, e non potevo essere rispedito a casa: quale
casa poi, quale villaggio, quale paese dell’Africa immensa? Così Toni l’ha spuntata, ma bisogna
dire che è un uomo ricco e che io ho avuto una gran fortuna che
quel 2 ottobre fosse ancora in vacanza nell’isola e fosse uscito per fare un giro perché,
dopo tre giorni di scirocco, era tornato il bel tempo.
Qualcuno, invece che fortuna, lo chiama destino. Ma io credo sia la volontà divina che fa
succedere l’imprevisto, anche nei momenti più disperati, forse proprio in quelli più
disperatamente impossibili.
È per tutta questa faccenda imperscrutabile che oggi sono qui, e percorro un corridoio
umido per scoprire se è proprio questo il mio destino.
Tra pochi istanti, intorno a me tutto esploderà. Devo solo compiere pochi passi, salire un
gradino, alzare le braccia, spingermi oltre.
Ecco, tocca a me: il congegno si è messo in moto, i soliti numeri che scandiscono ogni
gesto, ogni movimento. Nove secondi e ventisette decimi per arrivare al boato, la mia rivincita
su questo mondo.
Io fuggitivo, morto che cammina, pescato in mezzo ai delfini, io guastamestieri, mezzo
guercio, esiliato, cresciuto in un villaggio senza tempo e scappato dentro il tempo, io oggi
scivolo per disintegrare il tempo, atomizzarlo, io che mi chiamo Atom, finché io e il mondo non
si diventi niente più che una microscopica particella nella mente di Dio.
Pochi metri e tocco il muro piastrellato di bianco, alzo un pugno al cielo. Il boato
s’infrange su di me, m’investe, mi solleva in alto. In un attimo la mia mente si rivolge a Dio
che mi ha voluto portare fin qui, perché se mi ero accorto da solo che non ero tagliato per fare
il pastore né il soldato, non potevo sapere per che cosa fossi tagliato finché non ho traversato
il mare, finché non sono caduto in mare.
Quell’esplosione mi esalta, così compio un salto nell’acqua della piscina olimpionica e il
mio corpo schizza fuori, come un delfino che balza fuori dal mare. Sul tabellone, il mio tempo
record; intorno a me, l’entusiasmo della folla. Cento metri stile libero: sono primo.
Inshallah.