Caro papà,
recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al
solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché
motivare questa paura richiederebbe troppi particolari, più di quanti riuscirei a riunire in
qualche modo in un discorso. Se ora tento di risponderti per lettera,
anche questa sarà una risposta molto incompleta, perché anche quando scrivo mi bloccano la
paura di te e le sue conseguenze, e perché la vastità del tema oltrepassa di gran lunga la mia
memoria e la mia intelligenza.
Mi è sempre stata incomprensibile la tua assoluta insensibilità al dolore e alla vergogna
che suscitavi in me con le tue parole e i tuoi giudizi, era come se non ti rendessi conto del
tuo potere. Certo, anch’io ti ho spesso aggredito verbalmente, ne ero consapevole, mi
dispiaceva, ma non riuscivo a dominarmi, a trattenere le parole, e già mi pentivo
pronunciandole. Tu invece con le tue offese colpivi alla cieca, senza pietà per nessuno, né
durante né dopo, di fronte a te si era completamente indifesi.
Ma così era impostato il tuo sistema educativo. In questo campo tu hai, credo, del
talento; avresti certamente avuto successo con una persona simile a te, educandola a tuo modo;
avrebbe capito la ragionevolezza delle tue parole, non si sarebbe preoccupata d’altro e avrebbe
fatto tranquillamente quanto doveva. Per me, bambino,
tutto quello che mi ingiungevi era senz’altro un comandamento del cielo, non l’ho mai
dimenticato, diveniva il metro determinante per giudicare il mondo, soprattutto per giudicare
te, e qui hai fallito totalmente. Poiché quando ero piccolo ci vedevamo soprattutto a tavola, il
tuo insegnamento era in gran parte rivolto alla condotta da
tenere durante i pasti. Quello che compariva in tavola bisognava mangiarlo, era proibito
esprimere giudizi sulla qualità delle portate – tu però le trovavi spesso disgustose, le
definivi «robaccia»; quell’ «animale» (la cuoca) le aveva rovinate. E poiché tu, conformemente
al tuo robusto appetito e alla predilezione per bocconi grossi e bollenti, mangiavi in gran
fretta, il bambino doveva spicciarsi, a tavola regnava un silenzio opprimente rotto da
esortazioni: «prima mangia, poi parla», oppure «dài, più svelto, più svelto», oppure «guarda, io
ho già finito da un pezzo». Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non era
permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi. L’operazione più importante era tagliare il pane a
fette regolari, ma che tu la eseguissi con un coltello gocciolante di salsa era indifferente.
Bisognava fare attenzione a non lasciar cadere sul pavimento resti di cibo, e di solito erano
sparsi soprattutto ai tuoi piedi. A tavola si doveva pensare solo a mangiare, ma tu ti pulivi e
ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti frugavi nelle orecchie con uno
stuzzicadenti. Papà, spero che tu mi capisca bene, questi erano dettagli del tutto secondari,
per me divennero avvilenti solo in quanto tu, l’uomo che ai miei occhi rappresentava la massima
autorità, non ti attenevi alle ingiunzioni che mi avevi imposto. Di conseguenza il mondo si
divideva per me in tre parti, e nella prima io, lo schiavo, vivevo sottoposto a leggi concepite
solo per me e alle quali, senza saperne il motivo, non riuscivo del tutto ad adeguarmi, poi
c’era un secondo mondo infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a
impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti, e infine un terzo, dove il resto
dell’umanità viveva felice e libera da ordini e da obbedienze.
Io vivevo comunque e sempre nella vergogna, provavo vergogna se mi attenevo ai tuoi
ordini, dato che valevano solo per me; provavo vergogna se mi mostravo recalcitrante, perché lo
ero nei tuoi confronti, oppure non ero in grado di adeguarmi perché non avevo né la tua forza,
né il tuo appetito, né la tua agilità, cose che tu pretendevi da me considerandole ovvie; e
questa era la vergogna più bruciante. Così si mettevano in moto non le riflessioni, ma i
sentimenti del bambino.
Quando mi accingevo a fare qualcosa che non ti piaceva e mi pronosticavi un insuccesso, il
timore del tuo parere era tale che l’insuccesso, magari qualche tempo dopo, si verificava
puntualmente. Io persi la fiducia nelle mie capacità. Diventai incostante, dubbioso. Più
crescevo, più aumentava il materiale che eri in grado di esibire a riprova della mia scarsezza;
a poco a poco, in certo modo, finisti per avere
ragione. Di nuovo mi guardo bene dall’affermare di essere diventato come sono solo per
causa tua; tu rafforzavi soltanto una situazione di fatto, ma la rafforzavi in modo
determinante, perché nei miei confronti avevi un grande potere e lo impiegavi tutto.
(da F. Kafka, Lettera al padre, Milano, Feltrinelli, 2009, riduzione)