Quando compii sei anni mi fecero una festa. Era un sabato, lo so perché ho controllato
adesso il calendario di quell’anno. Quel giorno lo rammento a sprazzi. Ricordo vagamente alcuni
miei compagni delle elementari che non ho più rivisto e di cui confondo i nomi. Ricordo un
pagliaccio chiassoso, una pignatta a forma di astronave spaziale, verde con dei nastri di seta
rossi sulle punte, e un dolce di vaniglia con la glassa di cioccolato. Ricordo mia madre che
applaudiva, mio padre che tirava la corda della pignatta, le zie di Sinaloa che mi salutavano
con un bacio e i nonni che mi regalavano qualcosa di giallo.
Ricordo il mio cane legato al tronco del fico, che abbaiava ai bambini che gli correvano
intorno. Ma soprattutto ricordo Laura, la mia sorella minore, con indosso un pigiama, affacciata
alla finestra della sua stanza, che ci guardava rompere la pignatta masticando una canna da
zucchero. Aveva pianto tutta la mattina perché non le avevano permesso di venire alla festa: da
tre giorni aveva febbre e dolori muscolari.
Una settimana dopo, dalla stessa finestra, osservai i miei genitori che la avvolgevano in
una coperta azzurra e la facevano salire in macchina per portarla in ospedale. Fu l’ultima volta
che la vidi.
Il martedì o il mercoledì seguente – la memoria è impalpabile e m’impedisce di ricordare
con chiarezza – fu mia nonna, e non mia madre, che venne a prendermi a scuola. Parlò qualche
minuto con la professoressa e poi mi portò a casa sua. Durante il tragitto mi disse che Laura
era malata, che i miei genitori dovevano badare a lei e che presto sarebbe guarita. Mentiva: mia
sorella era morta qualche ora prima.
Restai da mia nonna quattro giorni, poi altri quattro con zia Carmina e altri tre a casa
di zio Pablo. Nessuno di loro tornò a parlarmi di mia sorella. Neanche i miei genitori quando mi
chiamavano al telefono.
In tutto quel periodo non tornai a scuola. Passavo le mattine insieme a Beatriz, la più
giovane delle mie zie, che spesso interrompeva i nostri giochi per guardare assorta un punto
fisso.
La sera zia Carmina e zio Pablo mi portavano a mangiare il gelato, oppure alle giostre o a
fare acquisti, cercando sempre di distrarmi con una falsa allegria. Non capii bene cosa stava
accadendo finché non tornai a casa e scoprii l’assenza di Laura e di tutto quello che la
ricordava.
Mancava tutto di lei: la sua voce un po’ roca, i suoi sorrisi, la sua andatura irrequieta,
i mobili della sua stanza, le sue tende rosa, le sue bambole, le sue scatole di dolci, i suoi
vestiti, i suoi disegni fatti a matita. E mancavano, soprattutto, le sue fotografie. In casa non
rimase alcuna traccia della sua esistenza: i miei genitori avevano deciso di
disfarsi del mondo della figlia morta.
Dopo qualche tempo, smisero perfino di pronunciare il suo nome.
Alle domande su di lei, i miei genitori rispondevano farfugliando parole incomprensibili,
per poi cambiare subito argomento. Infine il silenzio si estese anche al resto della famiglia.
Sembrava che Laura non fosse mai esistita.
Quanto a me, la sua scomparsa mi pesò profondamente. Mi mancava, soprattutto la sera,
quando giocavamo a nascondino, o con le macchinine, o a vestire e svestire le bambole, o con le
pistole ad acqua. Malgrado la differenza di sesso ci capivamo bene ed era raro che litigassimo.
All’inizio i miei genitori fecero uno sforzo per alleviare la mia solitudine.
Mi leggevano delle fiabe o mi portavano al cinema. Poi le loro ferite li fecero chiudere
in se stessi e poco a poco mi abbandonarono, fino a trascurarmi del tutto. Le sere si
trasformarono in un silenzioso scorrere delle ore, che mi tediava e mi angosciava.
Il mio ricordo di Laura prese a scolorire e cominciai a dimenticare i suoi lineamenti, i
suoi gesti, il suo modo di guardare. Il suo viso svaniva dalla mia mente e non c’era neanche una
fotografia per recuperarlo.
La sua immagine si ridusse essenzialmente a un unico momento: quello in cui, avvolta in
una coperta azzurra, partiva verso l’ospedale. Furono giorni difficili, che adesso considero
come i più amari della mia vita. Mi avrebbe aiutato molto, in quel frangente,
avere l’opportunità di salutarla, di parlare con lei, di giocare con i suoi giocattoli
fino a renderli inservibili, di darle un bacio nella bara.
I miei genitori pensarono il contrario e togliendomela di netto mi lasciarono senza niente
a cui afferrarmi. Non mi dissero neanche il giorno esatto della sua morte, né la causa. Rimasi
con l’idea che gli uomini fossero troppo schiavi della morte.
L’ingresso nell’adolescenza inasprì il mio carattere. Litigavo continuamente coi miei
genitori, ai quali in fondo non perdonavo il modo in cui avevano sradicato il ricordo di mia
sorella. Mi faceva rabbia che festeggiassero i compleanni dei miei fratelli e omettessero il
giorno in cui era nata la loro figlia morta.
Non alludevano mai a quel giorno impossibile in cui Laura avrebbe compiuto cinque anni.
Quando, durante una riunione familiare, glielo rinfacciai, non dissero nemmeno una parola e
continuarono a cenare senza scomporsi.
Dopo cena, mia zia Beatriz mi portò in una stanza per parlarmi a quattr’occhi. Mi chiese
di dimenticare, disse che era inutile rimestare in un passato da cui tutta la famiglia s’era
appena riavuta e che, per quanto lo volessimo, non si poteva far niente per riportare Laura tra
noi. Furioso, le gridai che ero stufo di tutto quel mutismo e quel riserbo, che non sapevo
neanche di che cosa fosse morta mia sorella e che per colpa dei miei genitori nemmeno me la
ricordavo più.
Beatriz aprì la sua borsa e estrasse dal portafogli una piccola fotografia di Laura. Me la
diede e rivedendo il suo viso scoppiai a piangere.
Mia zia mi abbracciò e disse che non potevo neanche immaginare quanto avessero sofferto i
miei genitori e quanto si fossero impegnati.
Magari senza essere capiti, per non farmi soffrire. Sarebbe arrivato il momento, disse, in
cui lei stessa mi avrebbe rivelato tutto sulla morte di mia sorella, e io avrei scoperto quanto
fosse stata dura.
Morì mio padre e quasi immediatamente anche mia madre. Poco tempo dopo, zia Beatriz mi
chiamò per dirmi che mia madre le aveva lasciato alcune cose e che voleva darle a me. Erano due
scatole di cartone sigillate col nastro adesivo. Appena le aprii, fui assalito di colpo dal
respiro del mio passato. Sistemate in ordine cronologico,
c’erano decine di fotografie di mia sorella. C’erano anche alcuni suoi giocattoli, i suoi
disegni, i suoi vestitini; un bauletto con dentro dei riccioli, dei nastri per capelli, delle
monetine e un chiodo argentato; il libro di Pollicino, che mia madre ci leggeva tutte le sere
perché era il nostro preferito. C’era anche una cassetta, con delle canzoncine
cantate da noi due. Si sentivano le nostre risate, la voce un po’ rauca di Laura, i suoi
scherzi, le frasi di mia madre giovane.
In una delle scatole trovai alcune lettere. Le aveva scritte mia madre a Laura dopo la sua
morte. Le raccontava quello che succedeva nel mondo, che continuava a esistere senza di lei,
dandole notizie di mio padre, di mia nonna, di me. Alcune avevano anche una data recente, di
appena due o tre anni prima. C’era in ogni linea scritta la sensazione di una colpa smisurata,
di un dolore mai digerito.
Contemplai le foto e gli oggetti di mia sorella per tutta la notte, fino al mattino.
Ascoltai la cassetta un’altra volta. I ricordi tornarono nitidi e, lungi dal farmi male, mi
riconciliarono col mio passato.
Volevo sapere una volta per tutte com’era morta mia sorella. Beatriz lo sapeva e quindi,
senza tanti preamboli, mi narrò la causa della morte di Laura: la scuola aveva organizzato una
gita in un piccolo zoo privato. Laura vinse l’opportunità di prendere in braccio un cucciolo di
volpe grigia. Mentre lo alzava felice per mostrarlo a una compagna, il cucciolo le morse il
dorso della mano sinistra. La maestra le guardò la ferita e, vedendo che si trattava di
un’incisione poco profonda, le disse che sarebbe guarita con un po’ di saliva. Mia sorella tornò
a casa con un cerottino sulla mano e un aneddoto da raccontare, ignorando di avere nel sangue il
virus scuro della rabbia. Neanche mia madre diede importanza alla ferita e quando scoprirono che
la volpe era portatrice del male mia sorella presentava già sintomi della fase avanzata. Non ci
fu speranza. Laura morì atrocemente in una stanza senza luce, tra ondate crescenti di
convulsioni e spasmi che la soffocarono, con la mano afferrata a quella di mio padre.
(da G. Arriaga, Retorno 201, Roma, Fazi Editori, 2007, riduzione)