Ora avvenne che, essendo morto il vecchio parroco, fu mandato alla chiesa un giovane
                            prete un po’ «sciorno» che rideva improvvisamente per nulla, ne faceva una giusta e due
                            sbagliate, e decideva tutto a modo suo. Era un pezzo di marcantonio che passava a stento
                            dalle porte, mangiava quanto un tribunale, diceva messa quando si svegliava e i vespri
                            quando gli veniva in mente.
                            
Non potendolo più sopportare, i parrocchiani cercarono il modo di farlo andare via e
                            pensarono che la soluzione migliore fosse quella di giocargli uno scherzo che gli levasse
                            per sempre la voglia di restare da quelle parti. Della cosa s’incaricarono quelli della
                            compagnia: dissero che era morto un povero diavolo e, messo in una cassa un vecchio burlone,
                            lo portarono nella cappella, deponendolo in mezzo ai ceri accesi col coperchio appoggiato
                            sopra la bara. Quando furono suonate le undici, i furboni che facevano la veglia se ne
                            andarono e, zitti zitti, s’appostarono fuori della porta per sentire quello che sarebbe
                            successo e far paura al prete fingendosi diavoli e anime dannate. Il prete, rimasto solo col
                            morto, si tolse il collare e si mise su un comodo
                            
seggiolone vicino a uno dei ceri a dire il breviario. Quando fu notte fonda e si
                            sentiva solo il vento far tremare a tratti le vetrate, il finto morto pensò che fosse venuto
                            il momento di cominciare il gioco e, sollevato il coperchio con uno scricchiolio sinistro,
                            fece una risatina da pazzo: – Ih, ih, ih, ih… – lasciando poi ricadere il coperchio con un
                            tonfo. Il prete alzò gli occhi dal breviario e, guardandosi intorno, disse tranquillo:
                            
– Dev’essere rimasto chiuso qua dentro un gufo o una civetta… – e continuò a recitare
                            il breviario. Il burlone, inteso questo discorso, fu preso dalla stizza e disse tra sé:
                            
– Ora ti faccio vedere io gufi, civette, allocchi e barbagianni… Sollevato di nuovo il
                            coperchio, mandò un urlo da far rabbrividire le statue di gesso: – Uuuuhhh…
                            
Il prete si guardò intorno incuriosito e, vedendo ricadere pesantemente il coperchio,
                            borbottò: – Ma questo morto dev’essere un po’ scemo e non ha voglia di fare il morto come si
                            deve.
                            
Poi, battendo le nocche sulla cassa, disse tranquillo:
                            
– Buono, buono, non avere furia che al funerale c’è ancora tempo. Stai tranquillo che
                            domattina ti canto un Libera me coi fiocchi! Quello che stava nella cassa, a sentire quelle
                            promesse, andò in bestia e, dopo qualche momento, dette alcuni colpi nel coperchio,
                            emettendo una specie di ruggito lungo e terribile: – Ggrrr…
                            
– Ah, ma questo morto – disse il prete – ha proprio le idee sbagliate: ora gli levo i
                            grilli dal capo… Afferrò un grosso candeliere di legno e, tolto il coperchio alla bara,
                            
assestò al malcapitato quattro randellate da olio santo, lasciandolo morto davvero. Si
                            rimise poi a recitare il breviario e così, senza intoppi, passò il tempo.
                            
Quelli che stavano fuori, non sentendo nulla e non potendo entrare, stettero il resto
                            della notte a dirsi d’aspettare e d’andar via, sperando che il compare si decidesse una
                            buona volta a farsi vivo: chi pensava che si fosse addormentato, chi diceva che aveva avuto
                            paura, chi sospettava che fosse scappato.
                            
Venne l’alba e il prete suonò le campane per il funerale e aprì la chiesa.
                            
Quando i confratelli stanchi e insonnoliti entrarono, si accorsero che il loro amico
                            era morto davvero. Cominciarono allora a piangere e a disperarsi: com’è possibile che sia
                            morto? Ma com’è stato? Ma avrà battuto la testa? Ma sarà stato il freddo? Gli è mancata
                            l’aria? Aveva fatto indigestione? Si convinsero alla fine che fosse morto di paura e, non
                            potendo fermare il funerale, fecero le esequie e così si arrivò al camposanto. Il prete,
                            cantando a squarciagola e benedicendo, seppellì il disgraziato e concluse la funzione, al
                            termine della quale fece un discorsetto sulla vanità del mondo e la brevità della vita
                            umana.
                            
I parrocchiani già s’erano rassegnati all’idea d’una tragica fatalità, quando
                            sentirono il prete concludere: – Fedeli carissimi, ho da fare una raccomandazione a tutti,
                            ma in particolare ai confratelli della compagnia: quando mi portate i morti, guardate che
                            siano morti bene, perché se no la notte si rizzano, cantano, urlano e berciano, per cui
                            tocca a me finirli e non è detto che, nuovo come sono del mestiere, il lavoro mi venga
                            sempre bene come stanotte… Andate in pace.
                            
E i fedeli andarono in pace, zitti, alle proprie case esterrefatti e inorriditi.
                            
                            
(da C. Lapucci, Il libro delle veglie, Milano, Vallardi-Garzanti, 1988)