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La battaglia di Waterloo


Era quasi sera. Fin dal primo pomeriggio aveva cominciato a piovere, e le colline del Brabante inzuppate d’acqua s’erano tramutate in un mare di fango. Solo la strada acciottolata, la grande strada maestra che dal confine francese portava a Bruxelles, era ancora percorribile, sia pure a fatica; e su di essa si accalcavano i soldati, i cavalli, i cannoni di Napoleone, all’inseguimento dell’esercito di Wellington in ritirata.
In condizioni normali, quel 17 giugno la luce avrebbe dovuto durare fin oltre le nove di sera; ma da quando il sole caldo del mattino aveva lasciato il posto agli acquazzoni l’orizzonte si era oscurato, come se stesse calando un crepuscolo precoce. In entrambi gli eserciti tutti i soldati, fino all’ultimo ragazzotto olandese o tedesco reclutato da poche settimane nella milizia e completamente ignaro di che cosa fosse la guerra, capivano che per oggi non ci sarebbe più stata battaglia. Ma domani? Napoleone allungò il cannocchiale che uno degli aiutanti s’era affrettato a porgergli, ed esplorò l’orizzonte. Una scura colonna di fanteria nemica stava attraversando di buon passo l’avvallamento e si preparava a risalire il versante opposto, sotto la protezione di una linea di cavalleria inglese, schierata lungo la cresta e pronta a caricare per coprire la ritirata di quegli ultimi fanti, come aveva già fatto più volte nel corso di quella faticosa giornata. Le prime avanguardie della cavalleria francese anch’esse discese nell’avvallamento, si tenevano a poca distanza dalla retroguardia nemica, per farle sentire sul collo il fiato dell’inseguimento. Pioveva a dirotto, e sotto il cielo basso e cupo era impossibile vedere qualcosa di più. Il grosso dell’esercito di Wellington, quell’esercito raffazzonato in cui si parlavano quattro lingue, composto com’era di truppe inglesi, tedesche, belghe e olandesi, era già sparito dietro la dorsale di Mont-Saint-Jean.
L’imperatore smontò da cavallo, entrò nella locanda, e mentre si toglieva il cappello e il pastrano fradici di pioggia fece distendere su un tavolo la mappa che portava sempre con sé, in un apposito scomparto della carrozza da viaggio, insieme a tutti i libri e i documenti che potevano tornargli utili durante la campagna. Sulla carta geografica si vedeva abbastanza chiaramente che la strada maestra, dopo aver oltrepassato la cresta e il villaggio di Mont-Saint-Jean, costeggiava ancora qualche fattoria isolata e qualche mulino a vento, e finalmente raggiungeva un altro grosso villaggio: Waterloo. Alle spalle di quest’ultimo incombeva un vasto bosco, la foresta di Soignies; e la strada, dopo Waterloo, s’inoltrava risolutamente fra gli alberi. Continuando a seguirla col dito sulla carta, era facile calcolare che una colonna di fanteria, marciando sul pavé, avrebbe impiegato poche ore per attraversare la foresta; e sbucando all’aperto si sarebbe trovata in vista dei campanili di Bruxelles.
Per Napoleone la situazione si chiariva, perché le alternative ormai erano soltanto due. Se il duca di Wellington aveva intenzione di difendere Bruxelles, doveva dare battaglia prima di Waterloo, e dunque il suo esercito doveva essersi fermato lì, al riparo di quella lunga, bassa cresta che lo nascondeva al cannocchiale dell’imperatore. Non si dava battaglia in una foresta, in un’epoca in cui la vista e la voce del generale e dei suoi aiutanti erano l’unico mezzo per manovrare un esercito e mantenerne la coesione. Quanto a rifugiarsi nella metropoli con tutto l’esercito, e attendere passivamente gli eventi, i generali di un’altra generazione l’avrebbero forse fatto; ma dopo quel che Napoleone aveva insegnato al mondo nessuno sarebbe stato così pazzo da mettersi in trappola da solo, e proprio davanti a lui. Perciò, se Wellington voleva difendere Bruxelles, evitando al suo alleato, il re dei Paesi Bassi, l’onta di perdere una delle sue capitali fin dai primi giorni di guerra, avrebbe passato la notte a Mont-Saint-Jean, e l’indomani avrebbe dato battaglia.
Se invece le colonne nemiche stavano ancora proseguendo la loro triste ritirata sotto la pioggia, voleva dire che le avanguardie si erano già inoltrate nella foresta di Soignies, e che il duca aveva rinunciato a difendere Bruxelles. Ma questa ipotesi, nonostante l’apparenza favorevole, non rallegrava affatto l’imperatore. In mezzo a quelle stesse
dolci colline, più a oriente, ma non troppo lontano da lì, un altro esercito era in marcia sotto la pioggia: l’esercito prussiano che Napoleone aveva battuto il giorno prima a Ligny, e che ora si stava ritirando, senza che fosse ancora ben chiaro su quali strade e in che direzione.
Se Napoleone era entrato in Belgio, attaccando per primo i due eserciti nemici che si stavano ammassando sulle frontiere della Francia, era proprio per affrontarli e batterli separatamente: lasciarsi sfuggire gli inglesi, ora, e permettere che si riunissero con i prussiani, equivaleva a vedere sfumare l’obiettivo della campagna.

Cominciava appena a far giorno. In un raggio di pochi chilometri, quasi 150 mila uomini lividi per il freddo, con addosso divise umide i cui colori avevano già cominciato a stingere, con la barba non rasata da diversi giorni e incrostati dal fango da capo a piedi, si affaccendavano intorno agli avanzi dei falò spenti dalla pioggia, cercando di ravvivare un po’ di fuoco fra le braci. Tutto il legno, la paglia e l’acqua che si erano potuti trovare nei villaggi e nelle fattorie della zona, demolendo steccati, porte e finestre e svuotando stalle e fienili, erano già stati convogliati verso i bivacchi. Pian piano il sangue ricominciava a circolare nelle membra, e anche i molti che s’erano svegliati anchilosati per il freddo incapaci di muoversi riuscivano un po’ per volta a rimettersi in piedi. Dappertutto echeggiava un crepitio di spari isolati, gli uomini, dopo aver asciugato e pulito le canne e le pietre focaie dei loro moschetti, li rimettevano in funzione sparando un solo colpo, per essere sicuri che fossero di nuovo utilizzabili. Le condizioni igieniche dovevano essere spaventevoli, eppure sappiamo che molti, forse più di quello che accadrebbe oggi, approfittarono di quelle prime ore di luce per farsi la barba e magari indossare una camicia pulita: «perché ai soldati», come osservò un ufficiale francese, «non piace combattere quando sono sporchi».
Era già chiaro da diverse ore, quando un ufficiale proveniente dagli avamposti riferì a Napoleone che, a giudicare dalle apparenze, il nemico stava ripiegando. L’imperatore, elettrizzato, smise di occuparsi della corrispondenza parigina e dettò una nota frettolosa per il comandante del I corpo, ordinandogli di mettersi immediatamente all’inseguimento; poi fece sellare i cavalli e montò in sella, per andare a controllare di persona quel che stava succedendo sulla linea dei bivacchi.
L’imperatore non tardò a convincersi che l’esercito di Wellington stava prendendo posizione per resistere all’attacco. «Ordinate agli uomini di cuocere la zuppa e di mettere in ordine le armi, e verso mezzogiorno vedremo», stabilì Napoleone.
La colazione à la forchette venne servita nella massiccia argenteria del servizio imperiale. All’epoca, era uno spuntino decisamente sostanzioso, con carne fredda e vino, per gente che era già in piedi da parecchie ore e non poteva certo accontentarsi d’un caffelatte. Mentre le truppe che erano già in linea pulivano i fucili e preparavano la minestra, e quelle che avevano bivaccato più indietro arrancavano attraverso i campi fangosi per portarsi sulle posizioni assegnate, Napoleone indugiò a tavola con i suoi generali. Divorata la colazione, Napoleone fece spiegare su un tavolo la mappa e dopo averla studiata annunciò ai generali: «L’esercito nemico è più numeroso del nostro, ma abbiamo novanta probabilità a nostro favore, e nemmeno dieci contro». Come confessò poi a Sant’Elena, mai nessuna delle sue battaglie gli era sembrata più sicura.
«Wellington ha tirato i dadi, e sono in nostro favore», concluse. «E io vi dico che è un cattivo generale, che gli inglesi sono cattive truppe, e che sarà facile come far colazione».
Può darsi che l’imperatore non credesse fino in fondo a quello che diceva, ma il suo sistema era sempre stato quello di parlar male del nemico in pubblico, per rafforzare il morale dei suoi uomini: «e in guerra il morale è tutto». In ogni caso, la sua unica esperienza diretta di Wellington, maturata in quei giorni, non giustificava certo l’alta opinione che i suoi generali sembravano avere del comandante nemico.
Tanto per cominciare, si era fatto sorprendere impreparato dall’invasione; e adesso non si era forse lasciato sospingere con le spalle alla foresta, senza nessuna possibilità di ritirata, davanti a un esercito più forte del suo?
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