Riaprì gli occhi di colpo, e immediatamente prese coscienza della situazione.
Aveva una sete terribile, la gola secca e un saporaccio in bocca. Sentiva di avere le
labbra tanto screpolate da essere sul punto di sanguinare: se non avesse bevuto al più
presto, sarebbe morto disidratato.
Aveva bisogno d’acqua, tantissima acqua. Tutta l’acqua che fosse riuscito a trovare.
Il viso gli bruciava. Era metà pomeriggio: s’era addormentato al sole e s’era
scottato. Gli sarebbero venute le bolle, le vesciche, si sarebbe spellato. La qual cosa
avrebbe aggiunto sofferenza alla sua sete. Si alzò in piedi reggendosi all’albero,
dolorante, e guardò il lago.
Era acqua. Poteva berla? Nessuno gli aveva mai detto se l’acqua dei laghi era
potabile.
Pensò anche al pilota. In profondità, nel blu, legato al sedile, il suo corpo…
Terribile, pensò. Ma il lago era blu, invitante, e la sua bocca e la sua gola erano
terribilmente arse, e non sapeva dove avrebbe potuto trovare altra acqua da bere. Del resto,
nuotando per uscire dall’aereo e raggiungere la spiaggia, probabilmente ne aveva già
inghiottita una tonnellata.
Si chinò, accostò la bocca direttamente all’acqua e bevve, bevve a grandi sorsi. Bevve
fino a sentirsi pieno, gonfio, finché non cadde quasi dal tronco. Si rialzò e barcollando
tornò a riva.
Si sentì male quasi subito. Vomitò gran parte di ciò che aveva bevuto.
Ma la sete si era placata e l’acqua sembrava avergli calmato anche il dolore alla
testa, sebbene il calore del sole gli bruciasse ancora il viso.
– Ebbene! – A quella parola, pronunciata a voce alta, fece quasi un salto. Il suono
della voce umana sembrava estraneo a quel luogo. La ripeté: – Ebbene. Ebbene. Ebbene, eccomi
qui.
Eccomi qui, pensò. Per la prima volta dallo schianto il suo cervello iniziò a lavorare
lucidamente.
Eccomi qui. Ma qui dove?
Dove sono?
Dalla riva risalì fino all’albero presso il quale aveva dormito e si risedette, con la
schiena appoggiata contro la corteccia dura. Adesso faceva caldo, il sole era alto dietro le
sue spalle. Seduto all’ombra dell’albero provava una sensazione relativamente piacevole.
C’erano parecchie cose da chiarire. Cercò di soppesarne una alla volta.
Eccomi qui, cioè da nessuna parte.
Era estate. Aveva volato verso nord per andare a trascorrere un paio di mesi con suo
padre. Il pilota aveva avuto un infarto ed era morto. L’aereo era precipitato da qualche
parte nelle foreste settentrionali canadesi, ma non sapeva di quanto si era allontanato
dalla meta originaria, né in quale direzione. Dunque non sapeva dove si trovasse.
Rallenta, pensò. Vai più piano.
Mi chiamo Brian Robeson, ho tredici anni e sono da solo nei boschi settentrionali del
Canada.
D’accordo, pensò, fin qui ci siamo.
Stavo volando per andare a trovare mio padre e l’aereo è precipitato ed è affondato
nel lago.
Ecco, continua così. Pensieri brevi.
Non so dove sono.
Il che non significa molto. Rimani sul problema. Neppure loro sanno dove ti trovi.
Loro, i soccorritori. L’avrebbero cercato, avrebbero cercato l’aereo.
Suo padre e sua madre avrebbero messo sottosopra il mondo pur di trovarlo. Brian
sapeva come si svolgevano certe ricerche. L’aveva visto nei notiziari, nei film sugli aerei
dispersi. L’aereo veniva ritrovato dopo uno o due giorni. Prima della partenza i piloti
dovevano redigere i piani di volo, schemi dettagliati in cui si spiegava quando avrebbero
volato, e lungo quali rotte. I soccorritori avrebbero potuto disporre dei piani, ne
avrebbero esaminata ogni parte, l’avrebbero cercato. Sarebbero arrivati. Forse oggi stesso.
Sarebbero potuti arrivare oggi. Questo era il secondo giorno dopo l’incidente. No, Brian
aggrottò la fronte. Era il primo o il secondo giorno? Dopo lo schianto era calata la sera e
aveva trascorso l’intera notte all’aperto e al freddo. Perciò questo era il primo vero
giorno. Ma di certo avevano già iniziato le ricerche, dopo aver atteso invano che l’aereo di
Brian giungesse a destinazione.
Sì, probabilmente sarebbero arrivati oggi.
Mai avuta tanta fame.
E non c’era assolutamente nulla da mangiare.
Nulla.
Cosa succede nei film quando i protagonisti si trovano ad affrontare quel tipo di
difficoltà? Oh, sì, gli attori trovano di solito qualche tipo di pianta buona da mangiare, e
ne mangiano fino a scoppiare, oppure costruiscono qualche trappola per prendere un animale,
lo cuociono su un allegro fuocherello, ed ecco organizzato in men che non si dica un pranzo
di otto portate.
Il problema, pensò Brian guardandosi intorno, è che qui non c’è nient’altro che erba e
cespugli. E, a parte i milioni di uccelli e i castori, non aveva viso altri animali da poter
catturare, e comunque non aveva i fiammiferi per accendere il fuoco…
Nulla.
Be’, quasi nulla. Infatti, pensò, non so esattamente cos’ho e cosa non ho. Dovrei
provare a esaminare nel dettaglio la mia situazione. Così avrò qualcosa da fare, qualcosa
che mi impedirà di pensare al cibo.
Finché non verranno a prendermi.
Brian aveva avuto un insegnante di inglese, un tipo di nome Perpich, che raccomandava
ai suoi allievi di essere sempre ottimisti, di pensare positivo, di vedere le cose dal lato
buono. Perpich diceva proprio questo: essere ottimisti e vedere le cose dal lato buono.
Brian pensò a lui, ora: si chiese come poteva, in quella situazione, essere ottimista e
vedere le cose dal lato buono. Perpich gli avrebbe detto che doveva essere motivato,
trovarsi un obiettivo. Brian mi mise in ginocchio e si frugò nelle tasche, tirò fuori tutto
ciò che aveva e fece un mucchietto sull’erba davanti a sé.
Il panorama delle sue risorse era abbastanza scoraggiante. Un quarto di dollaro,
trenta cents, un nichelino e due pennies1. Un tagliaunghie. Un portafoglio con venti dollari
(«Nel caso ti trovassi nei pasticci all’aeroporto di qualche cittadina e volessi comprarti
da mangiare» gli aveva detto sua madre) e qualche pezzetto di carta.
E alla cintura, ancora lì, c’era l’accetta. Mise sull’erba anche quella. Sul filo
della lama si stava già formando un po’ di ruggine. La rimosse con il pollice. Ecco tutto.
No, aspetta.
Se voleva fare una cosa doveva farla bene. Perpich gli avrebbe suggerito di non far
confusione. Trova un motivo per andare avanti. Esamina con attenzione tutto ciò di cui
disponi, Robeson.
Addosso aveva un paio di scarpe da tennis, ora quasi inaridite. E i calzettoni. I
jeans, le mutande, una cintura di cuoio sottile, la maglietta e una giacca a vento ridotta a
brandelli.
E un orologio. Al polso aveva ancora un orologio digitale che però si era
probabilmente rotto nell’incidente: il piccolo quadrante era spento.
Se lo slacciò e fece per gettarlo lontano, ma all’ultimo istante fermò il movimento
del braccio. Posò anche l’orologio davanti a sé, con il resto dei propri averi.
Ecco. Ecco tutto.
No, aspetta. Un’altra cosa. Questo era tutto ciò che aveva, ma aveva anche se stesso.
Perpich era solito martellarli con una frase: «Voi siete il vostro bene più prezioso. Non
dimenticatelo. Siete la cosa migliore che avete».
Brian si guardò di nuovo intorno. Vorrei che fossi qui, Perpich. Sono affamato e
scambierei tutto quello che ho per un hamburger.
– Ho fame. – Lo disse a voce alta. Lo ripeté piano, poi sempre più forte, fino a
gridare: – Ho fame, ho fame, ho fame!
Quando smise ci fu un silenzio improvviso: erano cessati anche i rumori della foresta,
gli uccelli non cantavano più. Le sue urla li avevano spaventati. Si guardò intorno, ascoltò
a bocca aperta, e si rese conto che in tutta la sua vita non aveva mai sentito il silenzio.
Il silenzio assoluto. C’era sempre stato qualche suono, un qualche tipo di suono.
Durò solo pochi secondi, ma fu così intenso che sembrò entrargli dentro.
Nulla. Non il minimo rumore. Poi gli uccelli ripresero a cantare, gli insetti a
ronzare, udì schiamazzare e gracchiare: il mondo riprendeva a vivere.
E ripresero i morsi della fame. Certo, pensò, rimettendosi in tasca le monete e il
resto e assicurandosi l’accetta alla cintura, certo, se arrivano stasera o domani la fame
non è un grande problema. Tanta gente ha resistito per molti giorni senza cibo, solo con
l’acqua. Anche se non arrivano prima di domani sera, me la caverò benone. Perderò un po’ di
peso, forse, ma basterà un hamburger con patate fritte a rimettermi in sesto.
Gli apparve l’immagine di un panino gigante… Scacciò il pensiero. Aveva pur sempre
l’acqua, anche se non sapeva quali rischi corresse nel berla.
Iniziò ad aver paura, il cuore prese a battergli all’impazzata. Il pensiero era lì:
per un po’ lo respinse, lo cacciò via, ma poi non poté impedire che esplodesse.
Potevano non trovarlo per molto tempo.
E a ruota seguì un altro pensiero: potevano non trovarlo mai più.
Ma quest’ultima ipotesi era davvero catastrofica, e la respinse, pensando al professor
Perpich. Quando un aereo veniva dato per disperso, le ricerche erano intense, venivano
impiegati molti uomini e aerei, venivano setacciate anche zone lontane dalla rotta. Lo
sapevano che era fuori percorso, aveva parlato via radio con qualcuno, in qualche modo
avrebbero saputo…
Sarebbe andato tutto bene.
L’avrebbero trovato. Forse non subito, ma presto. Presto. Presto.
L’avrebbero trovato presto.
Gradualmente le sue preoccupazioni si placarono e la paura svanì. Anche se non fossero
arrivati prima di tre o quattro giorni, sarebbe sopravvissuto senza troppi problemi. Doveva
sopravvivere. Ma doveva anche darsi da fare. Non poteva starsene seduto sotto un albero e
fissare il lago per quattro giorni. E quattro notti.
Era nella foresta e non aveva fiammiferi, perciò non poteva accendere il fuoco.
C’erano grossi animali, nella foresta. C’erano i lupi, pensò, e gli orsi, e chissà che
altro. Con il buio sarebbe stato una facile preda, lì, seduto alla base di un albero.
Sentì un brivido percorrergli la schiena. Quegli animali forse lo stavano guardando,
lo stavano aspettando. Stavano aspettando che calasse il buio per muoversi e catturarlo.
Strinse l’impugnatura dell’accetta. Era l’unica arma che aveva, ma era già qualcosa.
Doveva trovarsi anche un riparo. No, di più: doveva trovare un riparo e qualcosa da
mangiare.
Devo essere motivato, pensò, ricordando l’insegnamento di Perpich.
Ora sono tutto quello che ho. Devo fare qualcosa.