Il giorno in cui andai a scuola con il giubbotto di mio fratello Jaime, ne
successero di tutti i colori. Io lo sapevo benissimo. Lo sapevo fin dal momento in cui mia madre
mi guardò pensierosa, tenendolo in mano. Allora compresi che il maledetto giubbotto sarebbe
passato a me e che sarei diventata lo zimbello di tutta la classe, sentii quello che scrivono
nei romanzi, che il destino è inesorabile. E anche mia madre è inesorabile.
– Dai mamma, mi sta malissimo! – avevo detto dopo essermi messa addosso il giubbotto, che
mi andava lungo e largo.
– Ma va là! Ti sta benissimo! Ha stile! – rispose mia madre, tutta contenta. Perché la
mamma ha delle idee molto particolari sull’eleganza. La sua idea di base è che tutto quello che
dicono gli altri non ha assolutamente importanza; ma lei non va alla mia scuola. E poi non è
grassa come me; qualunque cosa si metta, le sta bene. Ed è inglese, e in effetti agli stranieri
è concesso tutto, o quasi. Uno degli svantaggi di essere la più piccola dei miei fratelli è
proprio questo: eredito sempre le cose degli altri. Di solito mi passano i vestiti di mia
sorella Susanna; anche se, a quanto pare, adesso cominciano anche a farmi vestire da uomo. Un
giorno mi misi a protestare, ma non fu una buona idea. Eravamo in sala, a prendere il tè: dato
che siamo mezzi inglesi abbiamo questa mania, e mia madre apparecchia con le tazzine cinesi di
porcellana trasparente. E io cominciai a parlare di vestiti e del fatto che li ereditavo.
– Vedi mamma, forse tu non te ne accorgi, perché sei inglese, ma a me sembra sempre di
essere diversa dagli altri. Quando ero più piccola, ricordo che tutte le bambine avevano il
montgomery e io dovevo accontentarmi di un vecchio cappotto di Suzy, orribile. E adesso, di
nuovo. Tutte le ragazze hanno la camicia di jeans e io niente, magliette ereditate…
– Ma Christie, credi davvero che sia così importante indossare quello che indossano gli
altri? Quello che indossano tutti gli altri? – Sì, ma non è solo quello… Io vorrei qualcosa che
sia mio, soltanto mio. E sceglierlo io. E poi, le camicie di jeans sono bellissime.
Mi ero innervosita, come mi succede tutte le volte che voglio difendere un’idea, per
quanto stupida o assurda possa essere, e il tè mi andò di traverso. Il mio fratello maggiore,
Pedro, che ha vent’anni già da un po’ continuava a dire: «Adesso scoppia, adesso scoppia…». E
io, stupida, non mi ero accorta che era un avvertimento, finché il tè non mi andò di traverso, e
dovetti tacere. Allora la mamma si alzò e uscì dalla stanza.
– Christie, sei proprio un’oca… – disse Jaime.
– Ma, perché? Che cos’ho detto?
I miei fratelli Pedro, Jaime e Suzy si guardavano l’un l’altro. Ed erano tutti seri.
– Dici di essere tanto grande, e non ti sei accorta che la mamma non ha un soldo…! Per lo
meno, non ne ha da spendere!
– Ma…, ma… se andiamo a sciare!
– Che cosa preferisci: andare a sciare o avere quella stupida camicia? Questo si chiama
ordine di priorità, oca, oca che non sei altro. Se preferisci andare in giro vestita alla moda,
le prossime vacanze di Natale te ne stai a casa con la tua bella camicia addosso e noi ti
mandiamo una cartolina dalla montagna – disse Pedro, che ha una buona dose d’ironia.
– Non ti sei accorta che, da quando papà è morto, la mamma ce la mette tutta per tirare
avanti?
Suzy ha due anni più di me, ed è quasi peggio di Pedro. Dice le cose in un modo che ti
lascia senza fiato, e poi è tutto quello che io non sono: educata, responsabile, snella,
eccetera. Cominciai a sentirmi male. Terribile. Stavo diventando rossa come un peperone. Stavo
per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Allora Jaime, che mi tira sempre fuori dai
pasticci, disse:
– Io e Christie andiamo a fare un giro! Voi recuperate la mamma!
Uscimmo in strada. Pioveva a dirotto, perché qui da noi piove sempre e ogni cosa è bagnata
e umida.
Jaime mi stringeva forte il braccio. Il bello della pioggia è che se piangi, non si vede.
– Su, piccola! Non fare la lagna! Adesso ci compriamo dei pasticcini per merenda!
Quando ritornammo a casa, la mamma, grazie al cielo, era normale e io mi sentii meglio. Lo
so che è terribile che la mamma sia sola e abbia pochi soldi e tutto quanto, eppure, il giorno
in cui dovetti andare a scuola con il giubbotto di Jaime, per me fu una pena. Io e Suzy andiamo
alla scuola inglese. A me sembra una scuola OK: le altre sono un po’ snob. Sì, insomma, piene di
figli di papà. Anche nella mia scuola c’è qualche figlio di papà, ma di meno. Certo, a tutto c’è
un limite: anche in una scuola che non è snob, andare in giro con un giubbotto di tre taglie più
grande suscita scandalo. Il giorno del giubbotto non potei protestare più di tanto perché mi
ricordavo della discussione e di come ci eravamo rimasti male tutti quanti, così, uscii con Suzy
trascinandomi mogia mogia giù per le scale.
– Dai Christie! Non fare quella faccia!
– Ma se sto malissimo!
– Non farci caso. Dopodomani se ne saranno dimenticati tutti.
– E già! Si vede che non lo porti tu!
Certo che è proprio un bel tipo, mia sorella! Viaggia sempre una spanna sopra gli altri,
che noiosa! Suzy si offese così tanto che non aprì bocca per tutta la strada. Entrai a scuola
guardandomi i piedi, cercando di mimetizzarmi con l’ambiente. Desiderai invano essere
invisibile, scomparire sotto terra… Ma prima che fossi riuscita a togliermi il giubbotto per
appenderlo all’attaccapanni del corridoio di fronte alla nostra porta, si sentì la voce
stentorea di Erik:
– Guardate quella là, vestita da emigrante!
E tutti gli altri, naturalmente, a fare il coro come pecoroni: «Ah, ah, ah! Ih, ih, ih!».
– Guarda che la guerra è finita!
– Terremotata!
– Poveraccia, sei una poveraccia! – sottolineò qualcuno particolarmente originale. Anche
le mie amiche ridevano. Tutte tranne Vanessa; però Vanessa è ancora più povera di me, per cui
non conta. Ero così furiosa che mi faceva perfino male la pancia e non potei fare a meno di dire
quello che dissi. Altrimenti avrei spaccato la faccia a tutti quanti.
– Ah sì! Vi sembra una cosa da poveracci? Si vede che non ve ne intendete di giubbotti.
– Che cosa?
– Ma certo… Questo giubbotto ha una lunga storia, caro mio! E tu non puoi certo dire lo
stesso del tuo!
Erik impallidì, perché il suo giubbotto foderato di montone è invidiato da tutti. Non per
niente è il ragazzo più ricco di tutta la scuola. In quel momento arrivò il professor Grant,
preside della scuola nonché nostro professore di letteratura inglese. Ci sedemmo
precipitosamente ai nostri posti e io ebbi tre quarti d’ora esatti per inventare la storia della
mia giacca; intanto Grant ci recitava la meravigliosa ballata del fidanzato che apre la tomba
della sua donna e piange mentre la bacia. Suonò la campanella, Grant se ne andò e tutti quanti
mi vennero intorno con il panino in mano, perché c’era la ricreazione. Io ero già lanciatissima.
– Come sapete, io ho uno zio che gioca alla pelota basca negli Stati Uniti.
– E che cosa c’entra tuo zio?
– Mi lasciate parlare, o volete che non vi dica niente?
– Dài, parla, parla – dicevano gli altri, incuriositi.
Io facevo la faccia di quella che è superiore a certe cose, che mi viene sempre molto
bene. È un’espressione che provo spesso davanti allo specchio.
– Allora, mio zio abita a Miami e viaggia moltissimo, e quando viene a trovarci ci porta
dei regali. Una volta è andato a Hollywood e lo hanno accompagnato in un posto speciale, dove
vendono i vestiti degli attori del cinema. E questo giubbotto, proprio questo che vedete, è
quello che aveva indossato Harrison Ford nel film… Indiana Jones!
Si buttarono tutti sul giubbotto, mentre io facevo la faccia da falsa modesta – che mi
viene peggio dell’altra, ma fa lo stesso… Insomma, passai una mattinata di trionfo. Tutti
volevano mettersi il giubbotto. Finii per affittarlo. Piuttosto caro, tra l’altro. Che idioti!
Quando terminarono le lezioni, tutta la scuola parlava di me, del giubbotto di Indiana Jones.
Mia sorella mi aspettava per tornare a casa. Accidenti com’era arrabbiata…! Tutta la scuola
l’aveva bombardata di domande!
– E tu che cos’hai risposto?
– Che erano cose tue. Che non ne sapevo niente.
Tipico di Suzy. La furbacchiona non si immischia mai.