C’era una volta una donna, di nome Masella, che aveva la disgrazia di avere
                        per figlio un ragazzo così stolto, così stolto da far prudere le mani solo a guardarlo. Ma più
                        la madre lo rimproverava e gli insegnava a vivere, e più lo stolto figliuolo, che si chiamava
                        Antonio, fischiettava indifferente senza ascoltarla. Una volta però le busse che gli caddero sul
                        groppone furono così numerose che Antonio decise di andarsene di casa. E camminò tanto che,
                        quando in cielo cominciarono ad accendersi le lucernette delle stelle, arrivò alla casa di un
                        Orco, accovacciata ai piedi di una montagna così alta che pareva volesse a tutti i costi cozzar
                        contro le nuvole. L’Orco era brutto molto, aveva naso a bernoccoli, denti a zanne, corpo di nano
                        e piedi di papera, ma non era cattivo. E accolse volentieri Antonio al suo servizio: forse gli
                        piacque la sua faccia stupida. Ma, dopo due anni che era con l’Orco e se la passava veramente
                        bene, ad Antonio venne la nostalgia della sua casa e chiese all’Orco se gli permetteva di darvi
                        una capatina.
                        
– Va’ pure – disse l’Orco. – E portati quest’asino. Ma non dirgli mai: “Arri, tesoro!” Te
                        ne pentiresti. Antonio si avviò verso casa e, dopo un cento metri, gli venne voglia di dire
                        all’asino: “Arri, tesoro!” E l’asino, giù rubini, giù zaffiri, giù smeraldi! Che bazza! Antonio,
                        raggiante, raccolse quel ben di Dio, e, quando dovette fermarsi a dormire in un’osteria, diede
                        l’asino all’oste, dicendo: – Non dirgli però: “Arri, tesoro!” Te ne pentiresti! Manco a dirlo,
                        l’oste ci provò, vide i risultati e, l’indomani, invece dell’asino prezioso, riconsegnò ad
                        Antonio un asino qualunque, che gli somigliava.
                        
– Mamma! Mamma! – gridò Antonio, appena arrivato a casa – Stendi lenzuola e coperte e
                        asciugamani! Siamo ricchi! E disse all’asino: – Arri, tesoro! - Ma l’asino neppure si scomodava.
                        Allora gliene dette tante sul groppone che il povero asino si diè a scodellare sulle lenzuola di
                        bucato tutt’altro che marenghi! Figuratevi la madre! Voleva rompere un bastone sulle spalle di
                        Antonio, ma questo fu svelto a scappar via e a rifugiarsi di nuovo a casa dell’Orco. Vi stette
                        questa volta due anni, poi disse che sentiva il desiderio di casa sua e l’Orco, gentile, gli
                        accordò il permesso.
                        
– Prendi per mio ricordo questo tovagliolo, ma guardati bene dal dire: “Tovagliolo,
                        apriti!” Te ne pentiresti. Come la prima volta, Antonio, dopo circa cento metri di strada, volle
                        provare le virtù del tovagliolo e vide con stupore che, dicendo: “Tovagliolo, apriti!” gli si
                        apparecchiava una mensa da Re. Arrivato alla solita osteria, quell’allocco fece all’oste la
                        solita raccomandazione, e l’oste, che aveva capito l’antifona, gli sostituì il tovagliolo fatato
                        con un altro simile.
                        
– Mamma! Mamma! – gridò Antonio, appena a casa. – Possiamo dare un calcio alla miseria,
                        ormai. Possiedo il tovagliolo dell’abbondanza! - Ma il tovagliolo non dette neanche una briciola
                        e, se Antonio non faceva presto a scappare, la madre lo riduceva a pezzettini! Tornò a gambe
                        levate in casa dell’Orco, che gli dette dell’allocco e dello stupidone, ma lo accolse ancora al
                        suo servizio. Se non che, in capo ai soliti due anni, Antonio chiese all’Orco se gli lasciava
                        fare la solita scappatina a casa. E l’Orco, compiacente, gli regalò, congedandolo, un bastone, e
                        gli raccomandò di non dire: “Mazza, alzati!” o “Mazza, coricati!”. Ma Antonio rispose con un
                        sorriso furbo: – Stai tranquillo, padrone, che ho messo senno. E questa volta non me la fanno.
                        Arrivò dall’oste e lo pregò di tenergli la mazza – Ma bada – aggiunse – di non dire le parole
                        magiche: “Alzati, mazza!”. L’oste, curioso, non appena vide che Antonio era gonfio di cibo e di
                        vino e cascava dal sonno, volle provare le virtù del bastone. Ma appena ebbe detto: “Alzati,
                        mazza!” la mazza si gettò su di lui e grandinarono alle sue spalle tanti colpi da ammazzare un
                        uomo. Con la mazza che gli correva dietro picchiandolo, l’oste corse a svegliare Antonio e lo
                        scongiurò di liberarlo. –Se mi restituisci il mio asino e il tovagliolo! – disse Antonio
                        ridendo. E, solo quando ebbe in mano i tesori, disse: “Coricati, mazza!” appena appena in tempo,
                        che l’oste pareva già andato! Poi, con quei doni meravigliosi, se ne partì trionfante verso
                        casa, e poiché veramente aveva portato la ricchezza e aveva un po’ imparato a vivere, sua madre
                        lo accolse a braccia aperte, e Antonio diventò l’uomo più ricco e famoso di tutto il regno. È
                        proprio vero il proverbio: “Pazzi e ragazzi Dio li aiuta!”.