Dodo si svegliò di soprassalto. Non capì subito il perché, ma quando un
fulmine rischiarò a giorno la stanza, comprese quello che stava accadendo. Fuori si era
scatenata una furiosa tempesta e il rumore della pioggia martellava incessante sul tetto. Rimase
per un attimo a fissare le onde increspate del mare che colpivano con forza la rimessa e il
piccolo pontile. Stava per andare nella camerata del padre quando udì un lamento simile al
pianto di un neonato. All’inizio aveva creduto che fosse stata solo una sua impressione, ma nei
momenti di quiete, tra un tuono e l'altro, quel verso era talmente forte da superare il fragore
delle onde. Dodo guardò verso il faro e non vide gatti estranei che potessero minacciare mamma
gatta. Non si sentiva più tranquillo. La pioggia veniva di traverso ed ebbe la sensazione che i
gattini non fossero abbastanza protetti. Senza pensarci due volte indossò la cerata appesa
dietro la porta. Non ebbe bisogno di mettersi anche i pantaloni, perché la giacca gli arrivava
quasi fino alle caviglie. Corse al guardaroba in cerca di un paio di stivali di gomma e trovò
solo un numero 39. Li calzò anche se erano troppo grandi. Poi prese una torcia elettrica ed
uscì. Non riusciva a correre molto bene, e aveva una paura terribile dei lampi. Come sospettato,
i gattini non erano per nulla protetti e l’acqua aveva invaso la vecchia cassa di legno, che
ormai era completamente fradicia. Avvicinandosi con cautela, afferrò il gattino rosso. Mamma
gatta lo guardava con sospetto, ma lo lasciò fare. Lo mise nella tasca dell’impermeabile e poi
cercò gli altri. Nascosto sotto di essa, trovò anche il gattino bianco e nero e lo mise
nell’altra tasca. Cercò a lungo il terzo, ma, non trovandolo, decise di portare all’asciutto
almeno quei due: temeva che prendessero freddo o che soffocassero dentro le tasche della cerata.
In dispensa trovò una scatola di cartone con delle confezioni di pasta. Vuotò il contenuto e
portò la scatola nei bagni del piano di sopra. Prese alcuni asciugamani e ne sistemò due dentro
la scatola. Poi tolse i gattini dalle tasche della cerata e li asciugò alla meglio. Dopo averli
deposti nella scatola uscì nuovamente. La gatta non c’era più: evidentemente era andata a
cercare il suo terzo micetto. La trovò infatti sotto la pioggia, più o meno a metà strada tra il
faro e l’Osservatorio. Aveva lo sguardo smarrito, così diverso da quello fiero del giorno prima.
Non sapeva decidere se cercare ancora o andare dai suoi due gattini. Fu Dodo a scegliere per
lei: la prese in braccio ed essa si lasciò trasportare senza proteste; l’asciugò un po’ e la
mise nella scatola con i due gattini. I piccoli e le si avvicinarono subito miagolando
debolmente ed essa iniziò ad allattarli, facendo le fusa. All’esterno la tempesta non accennava
a calmarsi. Dodo corse nuovamente al vecchio faro per cercare, con la torcia, il gattino nero
mancante. Anche se indossava la cerata, era fradicio, e il cappuccio, troppo grande, ogni tanto
gli scendeva sugli occhi. Continuò a cercare ma, dopo un po’, la luce della torcia iniziò a
esaurirsi. Eppure non si diede per vinto. Con la mano cominciò ad esplorare tutti i luoghi bui
dentro e attorno al faro. Nel fondo di una fessura, tra due enormi blocchi di pietre e cemento,
sentì qualcosa di freddo e peloso. Lo afferrò, sperando che non fosse un ratto. Era il gattino,
ma era così freddo che sembrava morto. Lo portò all’orecchio per cercare di sentire se il suo
cuore stava ancora battendo. Non ne era sicuro, ma ebbe l’impressione di sentire un debole
miagolio. Senza pensarci due volte aprì la cerata e lo mise sotto la maglietta. Rabbrividì al
contatto della pelle con il corpo gelido del gatto e avvertì una leggera fitta quando un piccolo
artiglio gli graffiò il fianco. Stava rientrando quando notò qualcuno nell’acqua a pochi metri
dalla riva, tra il faro e l’Osservatorio. Pensò che fosse il signor Bon, venuto a cercare i
gattini o a recuperare la sua barca trasportata in mare dalla forza delle onde. Si avvicinò
all’uomo mentre i brividi lo scuotevano dalla testa ai piedi. Quando fu abbastanza vicino e un
fulmine illuminò il cielo a giorno, s’accorse che l’uomo non era il signor Bon. Non lo
conosceva, ma non si preoccupò. A Valle Rossa, d’altronde, non c’erano solo i signori Bon, il
meccanico e il dottore! L’uomo lo guardò con lo sguardo perso nel vuoto. Era giovane, con i
capelli a spazzola come quelli di un soldato.
– Le serve aiuto, signore? – chiese Dodo sorridendogli.
– Mi vuoi aiutare? – propose il giovane. – E pensare che tutte le volte che ho avuto
bisogno di aiuto, mai nessuno si è fermato ad ascoltarmi…
– Mi sono fermato io – puntualizzò Dodo.
– Sì, tu – aggiunse l’uomo. – Un bambino… Ecco, prendi questo e fai attenzione a non
lasciarlo cadere.
Il giovane diede a Dodo un fagotto di stracci su cui era ricamato un piccolo unicorno.
– Sai, se tu fossi stato qui molti anni fa, quel bambino si sarebbe salvato…
– Lei… sta parlando del bambino che era stato dato per disperso la notte in cui il faro
crollò? – chiese tremante Dodo.
– Sì, lui!
Lo sguardo del giovane si fece più attento, quasi bramoso.
– Ma quel bambino si è salvato! – lo rassicurò Dodo.
– Come fai a saperlo?
– Me l’ha detto il signor Bon.
Il ragazzo lo guardò come se non avesse capito a chi si riferiva.
– Alvise Bon. Abita a Valle Rossa, poco lontano da qui.
Il volto del giovane finalmente si illuminò e sulle sue labbra affiorò un sorriso.
– Alvise. Si chiamava così anche quel bambino…
– Perché non vieni all’Osservatorio con me? Così ci possiamo asciugare – lo invitò Dodo
vedendolo bagnato fradicio.
– Non posso – rispose il giovane accasciandosi nell’acqua impetuosa.
– Ho il piede incastrato.
– Aspetta allora, vado a chiamare aiuto!
Dodo corse via, più in fretta che poté. Prima pensò di svegliare suo padre, ma poi decise
che era meglio chiamare il signor Bon: lui era più abituato al mare e sapeva di sicuro come
intervenire. Per arrivare a Valle Rossa impiegò più tempo di quanto avesse immaginato. Gli
stivali grandi lo rendevano instabile e non poteva usare le mani per sbilanciarsi, perché con
una sorreggeva il gattino e con l’altra teneva stretto il fagotto di stracci, entrambi riparati
sotto la cerata. La furia della tempesta era un po’ diminuita, ma dovette bussare a lungo prima
che qualcuno gli aprisse la porta, perché il rombo dei tuoni copriva ogni altro rumore. Fu la
signora Bon a svegliarsi per prima, e aprì la finestra per guardare chi fosse. La porta però gli
fu aperta dal signor Bon.
– Entra, cosa fai lì fuori sotto la pioggia?
– No, non c’è tempo! Sulla riva c’è un ragazzo, ha un piede incastrato e non riesce a
liberarsi!
Il signor Bon non fece altre domande e, dopo aver indossato anche lui l’impermeabile, uscì
con Dodo, sotto la pioggia. L’uomo camminava con passo spedito e Dodo faceva fatica a stargli
dietro. Quando arrivarono alla spiaggia il giovane era ancora lì, riverso nell’acqua.
– Dov’è il fagotto bianco? – disse il signor Bon che sembrava più preoccupato per quegli
stracci che per quel povero ragazzo.
– Ce l’ho io! – rispose Dodo mostrandogli il fagotto che nascondeva sotto la cerata. – Me
l’ha dato prima quel ragazzo.
Dodo aveva paura di aver fatto qualcosa di male. Il signor Bon sembrava stupito che avesse
lui quegli stracci.
– Forse sono suoi? – Dodo sussurrò quelle parole al signor Bon.
– Sì, sono miei – rispose lui con un sorriso.
– Li tenga, allora – disse Dodo non capendo ancora granché di quella situazione. Dodo
protese il fagotto, ma il signor Bon gli fece capire che poteva tenerlo.
– Perché non lo aiutiamo? – disse Dodo indicando il ragazzo.
– Perché è già morto… – spiegò piano il signor Bon – … ormai sessanta anni fa.
Il ragazzino non capì subito, ma alle prime luci dell’alba il giovane riverso sulla riva
scomparve nel nulla. Dal fagotto uscì un debole vagito e Dodo fece appena in tempo a intravedere
il viso paffuto di un neonato, prima che anche il fagotto svanisse come una nuvola di fumo. Solo
allora capì che la persona con cui aveva parlato quella notte era un fantasma.
da N. Stival, Il fantasma dell’Osservatorio, Raffaello Editrice, Monte San Vito 2004