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LE AQUILE

Benché siano passati più di trentamila anni, io, grande aquila dei Feruc, maschio, vecchissimo e forse ormai immortale, ricordo quel mattino come ieri. Era l’età felice quando nella valle non c’erano né strade né ferrovia né ponti gettati sopra il fiume, e non si udivano altri rumori se non il vento, le acque, le frane, gli uccelli, e i boschi erano pieni di bestie buone da mangiare; e io non avevo visto ancora l’uomo. Degli uomini mi avevano parlato a lungo i genitori, come di animali strani, ma non li avevo visti mai. Dicevano ch’erano bruttissimi ma furbi, più furbi di noi aquile e perfino delle marmotte e delle volpi, che sono furbissime. Che non avevano becco né artigli, né ali né penne e neppure il pelo propriamente detto, di cui pure sono ricoperti anche i topi e i ghiri. Che si muovevano più lentamente di tutti gli animali eppure con la loro astuzia riuscivano a uccidere perfino gli orsi adulti. E si raccontava che un uomo avesse rubato le uova da uno dei nostri nidi; e le avesse bevute; ma questa era forse una leggenda. Certo il mondo allora era infinitamente più piacevole; più splendido il sole, più grandi le montagne, più verdi i boschi, tutto più allegro e più pulito. Oppure è una mia illusione e la sola differenza sta nel fatto che quella era la mia gioventù? Anche oggi noi aquile siamo le regine delle rupi ma allora lo si era assai di più. Grandi e magnifiche eravamo. Poi cominciò la decadenza, ma la colpa è stata nostra? Dite, sinceramente, dite pure; è colpa nostra se oggi siamo ridotte così sole e poche? Era mattino presto e già risplendevano, bianche, gialle e rosa, le guglie delle somme creste, bellissime. Ma giù nei valloni restava ancora un po’ del buio della notte. Il cielo limpido, l’aria del nord, l’odore delle rocce riscaldate dal sole a poco a poco, una dolce giornata cominciava. Vidi salire velocissima, come se portasse una notizia, mia sorella, a cui volevo bene. Venne da me, disse che aveva scoperto un nido di uomini, maschio e femmina con tre quattro figli piccoli; era in una piccola caverna, nel fondo della valle, presso il fiume.
Le dissi: – Conducimi a vedere –. Mi sentivo bene, avevo fame. Ci precipitammo a piombo. – Là –, indicò mia sorella – dove c’è quel fumo. – Ora ci abbassavamo lentamente. La famiglia era tutta su un breve prato, dinanzi alla spelonca. Stavano riscaldandosi al primo sole. Gli uomini! Rimasi sbalordito. Non mi aspettavo che fossero così grossi e neppure così orribili a vedersi. Proprio schifosi con quella pelle bianca e i grotteschi cespugli di pelo qua e là, e quelle due gambe davanti lasciate ciondolare. Sulle spalle avevano delle pelli di animale, forse di capra. Ma era stupefacente come stavano diritti sulle gambe posteriori alla guisa di scoiattoli, e si servivano delle altre due con meravigliosa varietà di movimenti. I figli poi di pelo non ne avevano, tranne in testa; dovevano essere molli, appetitosi. Benché cercassi di tenermi contro sole, dovetti fare qualche manovra errata perché a un tratto mi videro. La madre, che aveva il pelo in testa più abbondante e due grandi mammelle, prese i figli ad uno ad uno e li portò di corsa nella tana mentre il maschio, agitando un’asta, lanciava verso di me degli urli come non avevo mai sentito, non tutti uguali come fanno di solito i mammiferi, ma di suono vario, cosicché ora sembrava un cane, ora una pecora, ora una cornacchia, ora un orso, ora una gallina. Fortemente impressionato, ritornai al nido e dissi a mia sorella:
– Bisogna far la posta. Pronti a lanciarci giù appena padre e madre si allontanano.
– Per fare cosa? – disse lei. – Per catturare i piccoli. Non hai visto come sono belli rosa? Più rosa ancora dei porcellini appena nati. – Impossibile – fece mia sorella – che siano buoni come i porcellini. Non c’è carne migliore del maiale. C’erano anche mio padre, mia madre, altre aquile amiche di famiglia tra cui la più vecchia del Feruc, un tipo verboso di filosofo7. Ricordo che cominciò una discussione. – Ragazzo –, mi disse il patriarca – lascia stare gli uomini. Essi non sono come le altre bestie. Anche se non è capace di volare, l’uomo è uno dei grandi enigmi8 della natura, l’uomo accende il fuoco come fanno i fulmini, sa mettere pietra su pietra, emette suoni complicati. La sua intelligenza testimonia la saggezza dell’Eterno, arricchisce la maestà dell’universo. Fargli male sarebbe sacrilegio!
– Balle! – ribatté senza riguardi uno della mia compagnia. – Lasciali fare, o vecchio, e poi te ne accorgerai. Li ho visti arrampicarsi su una rupe, sembravano camosci. Li ho visti andare a caccia, ammazzavano le lepri da lontano, lanciando degli stecchi. Lasciali fare!… Un giorno arriveranno qui, bruceranno i nostri nidi, ci faranno a pezzi. Altro che maestà dell’universo! –. I vecchi erano però tutti di un parere e mi fecero energico divieto. Ero giovane allora e le persone che parlano difficile mi facevano impressione. Sul momento tacqui, persuaso. Ma ben presto la voglia mi rinacque e continuavo a guardare in basso, al praticello. E quando il sole fu giunto al sommo del suo arco, vidi i due uomini, maschio e femmina, uscire insieme dalla tana. Scrutarono a lungo il cielo, per paura forse di vederci, poi discesero il fiume, allontanandosi con quella loro ridicola andatura. Subito io mi gettai a capofitto. In un baleno fui all’ingresso della grotta. Era larga, non profonda né difesa. I piccoli giocavano per terra. Stavo per piombagli addosso quando da dietro un macigno si alzò urlando un uomo; era magro e altissimo, grinzoso, con una lunga barba bianca. E non so bene come facesse, ma cominciò a lanciarmi delle pietre, che fischiavano. Spaventato mi risollevai nell’aria e roteavo sopra il loro nido, rimanendone discosto per evitare il lancio delle pietre. Intanto i piccoli correvano di qua e di là strillando. Altre grida risposero dal fiume. I genitori ritornavano? Scelsi il momento giusto e come una saetta mi lanciai su uno dei cuccioli che si era messo a fuggire per il prato. Doveva essere il più piccolo, Già io volavo e me lo sentivo fra gli artigli, caldo e soffice, doveva essere un cibo delizioso. In quel mentre, dal basso salì un suono a me ignoto, curiosissimo. Mi riabbassai un poco per guardare: tanto, chi mi poteva più raggiungere? Era la madre: ritornata alla caverna, ora sul prato si divincolava, tendendo a me le due zampe anteriori. Mi abbassai ancora un poco. Adesso la distinguevo meglio, in tutti i suoi particolari. Sempre con le zampe tese, per minacciarmi o supplicarmi, vibrava tutta, sussultando, la faccia si accartocciava in buffe smorfie e dagli occhi veniva fuori acqua. Però la cosa impressionante era la voce. Mai avevo udito un lamento simile. Chissà come, a quel pianto mi passò la voglia di mangiare. In pochi colpi d’ala fui in alto. Per quanto io salissi non riuscivo tuttavia a raggiungere il silenzio. La voce disperata mi inseguiva anche lassù. La preda, che mi palpitava tra gli artigli, divenne ad un tratto pesantissima. Per rinfrancarmi, come facevo spesso, levai gli sguardi alle grandi rupi, palazzi e chiese del mio regno. E allora, alti sopra di me, sull’estremità delle somme guglie, vidi gli anziani. Sagome nere contro il cielo, stavano immobili come le rocce stesse, le ali irrigidite e parevano seduti a tribunale. Che aspettavano? Perché mi fissavano in quel modo? All’improvviso mi venne addosso la vergogna. Fermai le ali, non sapevo neppure io il perché. Discendevo, discendevo a grandi cerchi, sfiorando le pareti. Non lo lasciai cadere, lo deposi sul prato piano piano, ripartii sollevato. Con smanie ignobili a vedersi, la femmina si precipitò verso il suo nato, mugolando. E ora sono passati più di tremila anni, io sono un esemplare da museo, e può anche darsi che non muoia più. Nel frattempo, se ne ho viste! Gli uomini hanno invaso il mondo, fatto strade, tagliato boschi, massacrato le altre bestie. Tra poco li vedremo spadroneggiare anche quassù, con gli schioppi e le loro smorte facce. Essi hanno tolto ad una ad una le cose che facevano gradito questo mondo, e non si fermano mai, corrono, continuamente corrono in su e in giù, si direbbe che si sentano inseguiti. Chissà perché corrono tanto e si affannano. Come se poi non gli toccasse di morire. La pace, la solitudine, il silenzio se ne sono dunque andati. E io sono ormai decrepito, mi muovo a stento17, mi nutro quasi d'aria, non me la prendo più per niente. Ma penso sempre a quel lontano giorno. E dico: ingenuo che io fui, stupido, illuso, oca non aquila. Vorrei riaverlo tra le grinfie oggi, quel bambino.

da D. Buzzati, Bestiario, Mondadori, Milano 1991
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