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LA CAMERA ROSSA

L’ingresso della camera rossa e i gradini che la precedevano erano immersi nell’oscurità. Prima di aprire la porta, mossi la fiamma della candela per illuminare il luogo in cui mi trovavo: qui, pensai, hanno rinvenuto il corpo di chi era entrato prima di me, e provai una fitta d’ansia. Entrai e mi richiusi subito la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa. Poi sollevai la candela per illuminare il luogo della mia veglia, la famosa camera rossa del Loirraine Castle, dove era morto il giovane duca. O meglio, da cui era uscito per morire, poiché aveva spalancato la porta ed era stramazzato dai gradini che io avevo appena salito. Così si era concluso il coraggioso tentativo di sfatare la leggenda che voleva quel luogo infestato dai fantasmi. Decisi di intraprendere subito una sistematica esplorazione del locale per dissolvere le paure fantastiche suggerite dall’oscurità, prima che prendessero forma. Assicuratomi che la porta fosse ben chiusa, mi misi a percorrere la camera, scrutando dietro a ogni mobile, sollevando le mantovane del letto e facendo scorrere le cortine. Alla fine mi decisi a ispezionare il letto con la candela, e mi convinsi che il luogo era deserto. Posai la candela sul pavimento accanto all’alcova e ve la lasciai. Mi sentivo molto teso benché non ne esistesse alcun valido motivo. Ad ogni modo, ero perfettamente lucido. I rossi e i neri della stanza mi impressionavano con la loro cupezza: sette candele accese bastavano appena per creare una penombra. Subito dopo mezzanotte la candela presso l’alcova improvvisamente si spense e l’ombra nera invase nuovamente, con un guizzo, quella zona. Non mi accorsi dello spegnersi della candela, solo del ritorno del buio, come dell’arrivo inaspettato di un estraneo.
“Però,” esclamai ad alta voce “che violenza, quello spiffero!” e, presi i fiammiferi sul tavolo, percorsi tutta la camera con passo che mantenevo tranquillo, per andare a fugare nuovamente l’ombra da quell’angolo. Il primo fiammifero non si accese e, mentre mi andava meglio con il secondo, mi accorsi di un tremolio sulla parete di fronte. Mi volsi di colpo e constatai che le due candele sul tavolino accanto al camino erano spente. Subito balzai in piedi.
“Curioso,” mi dissi “che l’abbia provocato distrattamente io stesso?”.
Ritornai sui miei passi, riaccesi una candela e in quel mentre mi accorsi che la candela sul braccio di destra di uno specchio vacillava per spegnersi di colpo. Lo stesso avvenne per quella a sinistra. Io non c’entravo: era come se un indice e un pollice avessero stretto lo stoppino, lasciandolo senza fiamma, senza un residuo di fumo. Mentre me ne stavo ancora lì a bocca aperta, la candela ai piedi del letto si spense, e l’ombra fece un altro balzo avanti.
“Non è possibile” esclamai. E, prima l’una e poi l’altra candela sulla mensola del caminetto inghiottirono le loro fiammelle.
“Ma come può succedere?” mi chiesi con una voce dai toni stranamente striduli. Ed ecco che la candela sull’armadio si spense, imitata da quella che avevo riacceso nell’alcova.
“Calma, calma, queste candele mi sono necessarie!” protestai in tono burlesco, ma in realtà quasi isterico. Sfregai un fiammifero per le candele sulla mensola. Mi tremavano le mani, così che per due volte mancai la striscia della scatola su cui strofinarli. Mentre la mensola tornava a illuminarsi, la fiamma delle due candele nel vano di una finestra si smorzò e morì. Ma, col medesimo fiammifero, riuscii alla fine a riaccendere le candele dello specchio grande e quelle sul pavimento accanto alla soglia, così che, per il momento, risultai in vantaggio sulle tenebre. Ma proprio allora, contemporaneamente, si estinsero quattro fiamme in un sol colpo, in quattro diversi punti della camera; agitatissimo sfregai un fiammifero, con un attimo di indecisione su quale accendere prima. Mentre ero ancora incerto, una mano invisibile parve passare sulle due candele del tavolino. Preso dal panico, mi precipitai nell’alcova, poi nell’angolo, poi alla finestra, riuscendo a rianimarne tre, mentre altre due si estinguevano accanto al caminetto. Ero ormai pazzo di terrore, di fronte a quell’avanzare di oscurità, e persi il controllo: balzavo, ansante e sconvolto, da una candela all’altra, in una disperata lotta contro quell’inesorabile marcia. Mi ferii un fianco contro la tavola, rovesciai una sedia, ci urtai contro, caddi e nella caduta mi tirai dietro la tovaglia. La candela rotolò via, ne afferrai un’altra e il brusco atto con cui la sollevai la fece spegnere di colpo. La candela mi cadde di mano. Levai allora le braccia, nel vano sforzo di respingere quella cortina nera e opprimente e urlai più forte che potevo, una, due, tre volte. Poi credo di essermi rizzato a stento: mi era tornato alla mente il corridoio rischiarato dalla luna e mi buttai a testa bassa, con le mani contro il viso, in direzione della porta. Ma avevo perso l’orientamento e andai a urtare in pieno contro lo spigolo del letto. Tornai indietro barcollando, mi girai e andai a sbattere contro qualche altro mobile pesante. Ho una vaga memoria di essermi dibattuto nelle tenebre, dei miei movimenti disperati, della mie grida selvagge, di un colpo violento sulla fronte, di un’angosciosa sensazione di caduta che mi parve eternarsi nel tempo, di un ultimo sforzo impazzito di rimettermi in piedi… poi nient’altro. Riaprii gli occhi che era giorno. Avevo la testa rozzamente fasciata e l’uomo dal braccio rattrappito stava fissandomi ansiosamente. Mi guardai intorno, cercando di farmi tornare alla mente ciò che era successo, ma per un po’ non riuscii a raccogliere le idee. Mi volsi verso un angolo e scorsi la vecchia che versava qualche goccia di una medicina da una bottiglia azzurra. “Dove mi trovo?” chiesi. “Mi pare di avervi già visto, ma non ricordo chi siete”.
Allora mi raccontarono gli avvenimenti, e io sentii riparlare della camera rossa come se ascoltassi una favola. “Aveva le labbra e la fronte insanguinate, quando l’abbiamo soccorsa, all’alba”, disse la vecchia. Lentamente i ricordi riaffiorarono. “Ci crede adesso ai fantasmi di quel luogo?” disse il vecchio. Non mi parlava più come a un estraneo, ma come chi consola un amico che ha molto sofferto.
“Sì” dissi “c’è veramente un fantasma in quella camera”.
“E lei lo ha visto, mentre noi, che abbiamo abitato qui per tutta la vita, non sappiamo come sia fatto. Perché non abbiamo mai avuto il coraggio di… Ci dica, è il vecchio conte o…”.
“No,” dissi “non si tratta di lui”.
“Te lo dicevo io” intervenne la vecchia, reggendo il bicchiere. “È la povera, giovane contessa… che patì quello spavento…”.
“No, non è nemmeno lei” dissi. “Non c’è il fantasma di qualcuno, là dentro, ma peggio, molto peggio…”.
“Chi allora?” chiesero insieme.
“Il peggior spettro di quanti perseguitano l’umanità e cioè, in tutta la sua
nudità… la paura”.

adattato da H. G. Wells, Blackout. Nel buio del terrore, a cura di D. Ziliotto, Mondadori, Milano 1998
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