Per un momento, dopo che il signore e la signora Darling ebbero lasciato
la casa, i lumini da notte continuarono a brillare con limpida luce. Accanto ai letti dei
tre bambini c’erano indubbiamente i più graziosi lumini da notte che si possano immaginare e
sarebbe stato desiderabile che rimanessero svegli per vedere Peter. Invece il lumino di
Wendy ammiccò e sbadigliò in tal modo che gli altri due sbadigliarono pure e, prima di
richiudere le bocche, eccoli tutti e tre addormentati. C’era però un’altra luce nella
stanza, mille volte più splendente dei lumini, e nel tempo che abbiamo impiegato a dirlo si
era introdotta in tutti i cassetti della stanza dei bambini cercando l’ombra di Peter, aveva
buttato sossopra l’armadio e persino rovesciato ogni tasca. Non si trattava proprio di una
luce: ma di lampeggiamenti discontinui qua e là. Quando si fermava per un attimo, si vedeva
che era una fata non più lunga di una piccola mano, e ancora in via di crescere. Era una
ragazzina chiamata Campanellino e, per vezzo, Trilly. Indossava un delizioso abitino fatto
con una foglia secca e con la scollatura quadrata, da cui la sua figurina acquistava grazia,
nonostante una leggera tendenza alla pinguedine. Un momento dopo l’ingresso della fata, la
finestra venne spalancata bruscamente dall’alito delle giovani stelle e Peter balzò dentro.
Siccome aveva trascinato Trilly per un tratto di strada, la sua mano era ancora intrisa di
polvere di fate.
– Trilly – chiamò a bassa voce, dopo essersi assicurato che i bambini dormivano.
– Trilly, dove sei?
In quel momento ella stava in una brocca, il che le piaceva straordinariamente perché
non era mai stata in una brocca prima di allora.
– Andiamo, esci di lì e dimmi, se lo sai, dove hanno messo la mia ombra.
Gli rispose il più grazioso tintinnio, come di campanelli d’oro. È questo il
linguaggio delle fate. Voi, bambini di carne e d’ossa, non potete udirlo, ma se vi capitasse
capireste subito di averlo già udito qualche altra volta. Trilly disse che l’ombra era nella
grande scatola. Ella intendeva il cassettone e Peter balzò nei cassetti spargendone tutto il
contenuto sul pavimento con entrambe le mani, come i re gettano al popolo soldi a manciate.
In un momento rientrò in possesso della sua ombra, e nella sua gioia dimenticò di aver
chiuso Trilly nel cassetto. Se avesse avuto la capacità di concepire un pensiero (ma io
credo che non abbia mai pensato) il pensiero sarebbe stato questo: egli e la sua ombra,
quando si fossero avvicinati, si sarebbero congiunti l’uno all’altra come due gocce d’acqua.
Non appena vide che non avveniva a quel modo, impallidì. Tentò di appiccicarla con il sapone
preso dal bagno, e nemmeno questo riuscì. Un brivido corse lungo il dorso di Peter. Sedette
in terra e prese a singhiozzare. Svegliata da quel pianto, Wendy si alzò a sedere sul letto.
Vide lo sconosciuto singhiozzare sul pavimento della stanza e non se ne spaventò affatto.
Anzi ne fu soltanto piacevolmente sorpresa e interessata.
– Perché piangi, bambino? – gli domandò con grande gentilezza.
Anche Peter si mostrò un bambino molto educato, avendo imparato le buone maniere alle
feste delle fate. Si alzò e le fece un inchino garbato. Wendy, soddisfatta, si inchinò a sua
volta con eleganza dal suo letto.
– Qual è il tuo nome? – domandò egli.
– Wendy Moira Angela Darling – rispose la bimba con un certo sussiego. – E il tuo?
– Peter Pan.
Wendy aveva già capito che doveva essere Peter, ma quel nome, a confronto del suo, le
sembrò assai breve.
– Solo cosi?
– Già! – ammise egli piuttosto contrariato di avvedersi, per la prima volta, che il
suo nome era davvero troppo breve.
– Sono dolente – mormorò Wendy Moira Angela.
– Oh non prendertela! – ribatté Peter un po’ cupo.
Wendy gli chiese dove abitava, e Peter rispose: – La seconda strada a destra, e poi
tira diritto fino al mattino.
– Che buffo recapito! A Peter si strinse il cuore. Per la prima volta si avvedeva che
forse il suo indirizzo era buffo.
– Non è vero che è buffo! – replicò.
Wendy, memore dei suoi doveri di ospite, cercò di rimediare alla sconvenienza e
aggiunse: – Volevo dire se è a questo modo che lo scrivono sulle lettere. - Peter avrebbe
preferito che ella non parlasse di lettere; comunque ribatté, spavaldo:
– Non ricevo lettere.
– Nemmeno la tua mamma ne riceve?
– Non ho mamma – rispose egli. E infatti, non solo non aveva la mamma, ma non aveva
nemmeno il più debole desiderio di averla. Riteneva che si attribuisse alle mamme eccessiva
importanza. Wendy ebbe subito la sensazione di trovarsi di fronte a una tragedia ed esclamò:
– Non mi stupisco, perché tu piangevi.
Saltò giù dal letto e corse con sollecitudine a lui.
– Non piangevo per il fatto di non aver madre – dichiarò egli piuttosto adirato –
piangevo perché non posso riattaccarmi la mia ombra. E poi non piangevo nemmeno!
– Si è staccata?
– Sì.
A questo punto Wendy scorse l’ombra sul pavimento, e siccome appariva tanto
spiegazzata, ne fu spaurita e dolente per Peter.
– È una cosa terribile! – osservò… tuttavia non poté nascondere un sorriso nel vedere
che egli aveva tentato di appiccicarsela con il sapone. Era proprio un ragazzo! Per fortuna
capì subito che cosa c’era da fare e disse con tono di leggera protezione:
– Bisogna cucirla.
– Che cosa è cucire? – domandò Peter?
– Sei terribilmente ignorante.
– Non che non lo sono.
Dopotutto, ella era felice che egli ignorasse tante cose.
– Ebbene, te la cucirò io, mio piccolo uomo! – promise Wendy che non era più alta di
lui. Prese il suo cestino da lavoro e si accinse a cucire l’ombra ai piedi di Peter, non
senza averlo avvisato che forse gli avrebbe fatto un po’ male.
– Stai tranquilla che non piangerò – promise Peter, convinto di non aver mai pianto in
vita sua. Infatti serrò i dentini e non emise un grido, così in un momento la sua ombra
tornò al posto di prima in modo perfetto, benché un po’ spiegazzata.
da J.M. Barrie, Peter Pan, Milano, Mondadori, 2003