«Per quanto tempo vivono le streghe, Serafina Pekkala? Farder Coram
parla di centinaia di anni. Ma tu non sembri affatto una vecchia».
«Io ho trecento anni, o forse di più. La nostra più vecchia madre strega ne ha quasi
mille. Un giorno, Yambe-Akka verrà per lei. Un giorno verrà anche per me. È la dea dei
morti. Lei viene sorridendo, gentilmente, e allora tu sai che è tempo di morire».
«Ma esistono uomini-strega? O sono solo donne?»
«Ci sono degli uomini che sono al nostro servizio, come il console a Trollesund. E ci
sono gli uomini che noi prendiamo per amanti o per mariti. Tu sei molto giovane, Lyra,
troppo giovane per capire queste cose, ma io te le dirò ugualmente, e tu le capirai più
tardi: gli uomini ci passano davanti agli occhi simili alle farfalle, creature di una breve
stagione. Noi li amiamo: sono coraggiosi, belli, capaci e intelligenti; e quasi subito
muoiono. Muoiono così presto che i nostri cuori sono costantemente torturati dal dolore. Noi
mettiamo al mondo i loro figli, che sono streghe se sono femmine, o altrimenti umani; e poi,
in un batter di ciglia, eccoli che se ne sono andati: schiantati, distrutti, perduti. Anche
i nostri figli, anche loro. Mentre cresce, un ragazzino si crede immortale. Sua madre sa che
non lo è. E ogni volta diventa più doloroso, finché alla fine il cuore ti si spezza. È
allora, forse, che viene a cercarti Yambe-Akka. Lei è ancora più vecchia della tundra. Per
lei, forse, la vita di una strega è breve come per noi quella degli uomini». Serafina
Pekkala chiamò l’aeronauta, e lui si svegliò di colpo, intontito dal freddo ma già
consapevole, a causa dei movimenti della navicella, del fatto che c’era qualcosa che non
andava. Stavano infatti ondeggiando selvaggiamente, sotto i colpi sferrati dai venti al
pallone rigonfio, e le streghe che tiravano la fune riuscivano a malapena a trattenerlo. Se
lo avessero lasciato andare, avrebbe subito perso la rotta e, a giudicare dalla rapida
occhiata che lanciò alla bussola, sarebbero stati trascinati via verso la Nuova Zembla ad
almeno centocinquanta chilometri all’ora.
«Dove siamo?» gli sentì gridare Lyra. Anche lei stessa si stava più o meno svegliando,
a disagio per quei movimenti, e così infreddolita da sentirsi tutta intorpidita, in ogni
parte del corpo. Non riuscì a cogliere la risposta della strega, ma attraverso il cappuccio
semi-chiuso vide, alla luce di una lanterna ambarica, Lee Scoresby tenersi a un montante e
tirare una fune che arrivava proprio fino all’involucro che conteneva il gas. Diede uno
strappo netto, come per sbloccare una qualche ostruzione, e scrutò in mezzo a quell’oscurità
che li schiaffeggiava da ogni parte prima di assicurare la fune a una galloccia dell’anello
di sospensione.
«Sto facendo uscire un po’ di gas» gridò a Serafina Pekkala. «Così andremo giù. Siamo
troppo in alto, di molto».
La strega gli urlò qualcosa in risposta, ma di nuovo Lyra non arrivò a coglierla. Poi
accadde qualcosa di orribile. Una creatura grossa quanto la metà di un uomo, con ali
coriacee e artigli uncinati, si stava arrampicando oltre la fiancata della navicella verso
Lee Scoresby. Aveva il capo appiattito, occhi sporgenti e una larga bocca di rana, ed
emetteva zaffate di un lezzo abominevole. Lyra non ebbe neppure il tempo di lanciare un
urlo, prima che Iorek Byrnison si levasse in piedi e lo sbattesse via. Cadde giù dalla
navicella e svanì lanciando acute strida.
«Demone delle falesie» disse Iorek, brevemente.
Un momento dopo comparve Serafina Pekkala, che si aggrappò a uno dei lati della
navicella e parlò in tono di urgenza.
«I demoni delle falesie ci stanno attaccando. Porteremo il pallone fino a terra, e poi
dovremo pensare a difenderci. Stanno…»
Lyra però non sentì il resto delle sue parole, perché si udirono una lacerazione e uno
strappo, e ogni cosa si inclinò da una parte. Poi un colpo tremendo gettò i tre umani contro
il lato del pallone dov’era accatastata l’armatura di Iorek Byrnison. Iorek allungò una
delle sue grandi zampe per trattenerli all’interno, data la violenza dei sobbalzi. Serafina
Pekkala era sparita. Il rumore era terribile: più alte di ogni altro suono giunsero le
strida dei demoni delle falesie, e Lyra se li vide sfrecciare accanto e ne colse la puzza
mostruosa. Poi venne un altro sobbalzo, così improvviso che tornò a gettarli tutti sul fondo
della navicella, che ricominciò a scendere a velocità spaventosa, girando tutto il tempo su
se stessa. Pareva che fossero stati strappati via dal pallone, e cadessero senza più nulla
che li trattenesse; poi venne un’altra serie di strattoni e di urti e la navicella fu
rapidamente gettata da una parte all’altra, come se stessero rimbalzando fra due pareti di
roccia. L’ultima cosa che Lyra vide fu Lee Scoresby che sparava con la sua pistola a canna
lunga a un demone delle falesie, dritto sul muso; poi chiuse strettamente gli occhi e si
aggrappò alla pelliccia di Iorek Byrnison con appassionata paura. Ululati, grida, fischi e
frustate del vento, la navicella che strideva come un animale torturato, riempivano l’aria
di orrendi rumori selvaggi. Poi venne ancora un sobbalzo, il peggiore di tutti, e lei si
trovò scagliata irrimediabilmente fuori dalla navicella. Una violenta torsione l’aveva
costretta a lasciare la presa, poi il colpo le svuotò i polmoni lasciandola senza respiro, e
toccò terra in maniera talmente scomposta da non saper più neppure da che parte fossero
l’alto e il basso; e il suo viso dentro il cappuccio ben chiuso e legato si trovò pieno di
cristalli secchi, freddi, polverosi… Era neve; era atterrata su un mucchio di neve. Era
stata talmente sballottata che faceva fatica anche solo a pensare. Se ne stette ferma e
buona per parecchi secondi, poi debolmente sputò la neve fuori dalla bocca e soffiò piano
piano sino a liberare un po’ di spazio in cui respirare. Pareva che non ci fosse nulla che
le facesse male in maniera particolare; era solo che si sentiva proprio senza fiato.
Cautamente, provò a muovere le mani, poi i piedi, le braccia, le gambe, e ad alzare la
testa. Riuscì a vedere ben poco, perché aveva ancora il cappuccio pieno di neve. Con sforzo,
come se le mani le pesassero una tonnellata ciascuna, la spazzolò via e cercò di sbirciar
fuori. Vide un mondo fatto di grigi, grigi pallidi e grigi scuri, e neri, con vagabondi
ciuffi di nebbia simili a ghirlande. I soli suoni che poteva sentire erano le lontane strida
dei demoni delle falesie, su su in alto, e l’urto delle onde sugli scogli, a una certa
distanza.
«Iorek!» gridò. La sua voce era debole e tremante. Provò di nuovo, ma non rispose
nessuno. «Roger!» chiamò, con lo stesso risultato. Era come se fosse rimasta sola al mondo,
ma com’è ovvio del tutto sola non lo era mai, e Pantalaimon spuntò fuori dal giaccone, in
forma di topo, per tenerle compagnia.
«Ho controllato l’aletiometro» disse, «è tutto a posto. Nulla di rotto».
da P. Pullman, La bussola d’oro, Teadue, 1996, riduzione