- Pep, guarda cos’ho trovato! Emanuele era arrivato di corsa,
trionfante, con una specie di drago verdastro abbarbicato ai capelli dritti e biondi.
Trattenni il fiato. Con estrema delicatezza Emanuele districò quell’essere dalla sua testa,
e me lo porse per mostrarmelo. Era un brutto “affare”, pelle rugosa ricoperta di vescicole
aride, tre escrescenze sul muso come creste o corni di rinoceronte, e una larga bocca
sdentata da rana piuttosto rivoltante. Indietreggiai. Era un pomeriggio di marzo a Nairobi,
dopo uno dei primi scrosci delle lunghe piogge, che lasciano un odore intenso di terra
bagnata e di paglia umida, e sono seguiti da un sole violento che asciuga immediatamente le
gocce intrappolate fra l’erba. Mi guardò con quegli occhi profondi di velluto bruno,
oscurati da sconosciute malinconie più antiche dei suoi anni.
– È un camaleonte di Jackson, Pep – mi disse orgogliosamente.
– L’ho trovato nei cespugli di bambù. – Lo guardò con ammirazione. – Non è bellissimo?
Non ti sembra che assomigli a un triceratopo? Posso tenerlo? Si chiama King Alfred.
King Alfred il Grande fu il re britannico che si batté con i danesi e li vinse. Nel
libro di storia di Emanuele questi indossavano i cornuti elmi dei leggendari vichinghi, e a
tale inconscia associazione immagino sia dovuto il nome regale del suo primo camaleonte.
Annuii debolmente. Un lampo di trionfo per un istante gli illuminò gli occhi. Nacque così il
suo amore per i rettili, la sua passione per i camaleonti, e la straordinaria capacità di
trovarne, dovunque si andasse. Emanuele era un collezionista nato. Fin da piccolissimo aveva
raccolto minerali, figurine di animali, conchiglie. Più avanti i serpenti sarebbero divenuti
la sua passione irresistibile. I camaleonti furono i primi rettili che possedette
ufficialmente. Non sapevo ancora che con quel primo camaleonte eravamo entrati in una nuova
era, e che non vi sarebbe stato più ritorno. Pochi anni dopo vi sarebbero stati serpenti
veri, fino al culmine del suo destino. Aveva sei anni. In breve ci affezionammo tutti a King
Alfred. Somigliava davvero a un gigantesco rettile erbivoro munito di corna che era esistito
nel cretaceo, come appresi da una delle enciclopedie di Emanuele che avevo consultato per
documentarmi. I dinosauri avevano fatto il loro ingresso a casa nostra quando mio padre,
durante le sue peregrinazioni, ne aveva scoperto un grande giacimento fossile nel letto di
un fiume scomparso nel deserto del Ténéré. Una foto in bianco e nero di Emanuele a quattro
anni, in punta di piedi per toccare il mostruoso scheletro di un diplodoco, apparve in un
libro in cui mio padre narrò quell’avventura. Al contrario di me, Emanuele sapeva tutto sui
dinosauri, il loro aspetto, nomi e abitudini, e senza dubbio cera una forte similarità tra
l’originale triceratopo e il suo enigmatico discendente che venne a vivere con noi. I
camaleonti sono creature con una spiccata individualità, abitudinari, precisi, ed era facile
capire come un bambino curioso, interessato agli animali e alla loro vita, potesse essere
affascinato da questi amichevoli piccoli mostri. Durante il giorno, King Alfred viveva in
una scatola piena di rami e foglie, e fu nutrito di insetti che Emanuele catturava a scuola
in ogni momento libero e conservava in un vecchio barattolo della marmellata. Spesso però lo
portava di nascosto con sé in una scatolina di cartone forata, e negli intervalli delle
lezioni lo lasciava arrampicare sui rami dei cespugli bassi, e stava a osservare la caccia,
rapito. King Alfred era lungo una decina di centimetri; le quattro zampe terminavano in
“mani” a forma di pinza, ognuna con dita disposte ad angoli opposti per consentire una presa
saldissima fin sui più esili rami, nei più precari equilibri. La coda arricciata, da serpe,
costituiva un ulteriore appiglio, attorcigliandosi svelta sulle asperità degli arbusti. King
Alfred possedeva lo stesso sorprendente senso dell’equilibrio che consente alle scimmie di
tuffarsi nel vuoto dai rami più alti della foresta. Ma la più strana caratteristica, che
sbalordisce in tutti i camaleonti, erano gli occhi: indipendenti l’uno dall’altro, coperti
di fitte membrane, con un solo foro centrale in corrispondenza dell’iride, che gli permette
di mettere a fuoco un ristretto campo visivo e consente alla lingua a molla, vischiosa,
un’eccezionale infallibilità nella mira. L’insetto ignaro dondolava sullo stelo; la lingua
scattava così rapida che l’orrore della scena si prolungava ben oltre la scomparsa della
cavalletta incauta nella bocca cavernosa. Trattenevamo il fiato, inorriditi. A questo
spettacolo, che all’inizio trovavo ributtante, finii poi con l’abituarmi, e mi affascinava
anzi osservare la precisione della mira, simile al lancio del lazo del cow-boy che al volo
immobilizza animali lontani, o alla cerbottana crudele che interrompe spietata il volo degli
uccelli. Più strano era assistere al mutamento dei grani perlacei della pelle di King
Alfred, che al sole erano marrone, mentre all’ombra assumevano gradazioni impensate di verde
smeraldo; e sul copriletto giallo della mia stanza – gli esperimenti non avevano fine – ci
sorprese tutti, un giorno, diventando in meno di un minuto di uno smaltato color limone,
come se un’invisibile mano lo stesse ricoprendo gradualmente di morbide pennellate. In
Africa corrono strane leggende sul camaleonte, legate a questo suo mimetismo, e in generale
questo animale è temuto dagli africani. Nelle leggende kikuyu al camaleonte è attribuita la
parte che nella tradizione cristiana si attribuisce al serpente che tentò Eva nel paradiso
terrestre. Una specie di coalizione a scopo proditorio con la donna, che come lui è
mutevole, fluida, sempre variabile in una fantasia di arcobaleni. La presenza di King Alfred
sconvolse l’andamento della casa, perché il personale rifiutò di entrare nelle stanze dove
sospettavano di poterlo trovare. Il nostro cuoco Gatimu e il cameriere Bitu cercavano sempre
di evitare lo studio dove il nuovo amico di Emanuele girovagava liberamente: nel pomeriggio
presiedeva ai suoi compiti appollaiato sui libri, sorvegliava occhiuto il soffitto alla
ricerca di mosche o zanzare, e con silenziosa goduria tendeva agguati ai pigri insetti
casalinghi. Forse anche a questo timore reverenziale si deve la sua sopravvivenza, al
superstizioso rispetto che lo rende “intoccabile” e gli consente di portare in giro indenne
l’inerme e decrepito corpo preistorico, i cui unici nemici naturali sono gli uccelli da
preda, che non leggono libri e non ascoltano storie. King Alfred fu il primo di molti. Fu
seguito da vari camaleonti di Marshall, piccoli e scuri, e un paio piuttosto grassi, i suoi
favoriti pareva, che vennero infatti chiamati Fatty I e Fatty II. Era, questa specie, senza
la protuberanza in fronte e con l’aspetto sornione da rana ipocrita. Ci fu un Robert The
Bruce, un Victor, un Kiwi, Pembe Nussu (o “mezzo corno” a causa di una mutilazione del corno
frontale) e un King Alfred Secondo; e molti altri che non ricordo. Emanuele li accudiva
amorosamente, lasciandoli passeggiare in giardino tra i bambù e le gardenie, che attraevano
miriadi di insetti con il loro fortissimo profumo. E poi venne la volta che tre di loro ci
accompagnarono in un avventuroso viaggio al lago Rodolfo – in seguito chiamato con il locale
nome Turkana – perché Emanuele non voleva lasciarli a casa. Era un caldo afoso e asciutto,
un aprile prima delle piogge, durante le vacanze pasquali. Il viaggio da Nairobi allora era
lungo, due giorni su strade dissestate e polverose, e fu rallentato ulteriormente dal
bisogno di fermarsi spesso per occuparsi dei camaleonti. Durante ogni sosta, Emanuele apriva
la loro scatola, così che potessero respirare aria fresca, li spruzzava con acqua, ed essi
riuscirono perfino ad acchiappare un paio di mosche; ma il calore del ripostiglio del
cruscotto della Land Rover fu troppo per il più grosso di loro. Quando, dopo ore di
sobbalzi, nel tardo pomeriggio del secondo giorno di viaggio, finalmente la distesa
mozzafiato del lago, con le sue isole azzurre e malva, la lava nera e le arse erbe gialle,
ci comparve come un sogno primordiale dall’alto dell’ultima curva, Fatty I era morto. Nella
scatola aperta, tra le mosche rinsecchite, il suo corpo appariva sbiadito e allungato,
stranamente incolore e irreale come il negativo di ciò che era stato; aveva la precaria
temporaneità dei piccoli reperti archeologici scovati in nicchie segrete nel cavo di
sepolcri divelti, che si dice si dissolvano all’aria fresca del giorno. Né mi sarei stupita
se da un momento all’altro di lui non fosse rimasta che una polvere chiara. Questo dramma
segnò il nostro arrivo. E quando dopo molte altre miglia raggiungemmo l’oasi di Loyangalani,
e scendemmo tutti a cercare un poco di frescura tra le palme e a bere una bibita prima di
procedere verso il nostro campeggio, Emanuele non venne. Si allontanò da solo tra le erbe
irte, nel sentiero ombreggiato dai rari alberi, verso la sorgente termale. Quando tornò non
aveva più la scatola, gli occhi seri erano solo un poco più lucidi sotto la frangetta
bionda.
da K. Gallmann, Notti africane, Mondadori, Milano 1994