Le terre dell’abbazia di Saint-Germain erano divise in un certo numero
di fondi, chiamati fiscs, ciascuno di grandezza tale da poter essere convenientemente
amministrato da un fattore. Ognuno di questi fiscs era diviso in terre signorili e terre
tributarie: le prime amministrate dai monaci per mezzo di un fattore o di qualche altro loro
funzionario, le seconde possedute dai vari coloni che ne ricevevano il possesso
dall’abbazia. Queste terre tributarie erano divise in una quantità di piccole fattorie,
chiamate mansi, ciascuna occupata da una o più famiglie. Se foste andati a visitare il manso
principale o signorile, che i monaci gestivano direttamente, avreste trovato una piccola
casa di tre o quattro stanze, probabilmente costruita in pietra, che si affacciava su un
cortile interno, e a un lato di esso avreste visto un particolare gruppo di edifici, tutto
cintato, dove vivevano e lavoravano le serve appartenenti alla casa; sparse qua e là avreste
visto altre piccole case di legno in cui vivevano i servi, le botteghe degli artigiani, una
cucina, un essiccatoio, granai, stalle, e altri edifici agricoli, e tutt’intorno una siepe
fitta di piante, disposta in modo da costituire una specie di recinto o corte. Annessa a
questo manso centrale c’era una notevole estensione di terra: campi seminati, pascoli,
vigne, frutteti, e quasi tutti i boschi e le foreste del fondo. Certo, doveva essere
necessaria una grande quantità di lavoro per coltivare tutte queste terre. Un po’ di questo
lavoro era fornito dalla manodopera dei servi che appartenevano al manso principale e
vivevano nella corte. Ma questi servi non bastavano nemmeno lontanamente al lavoro che
occorreva fare sulla terra dei monaci, e la stragrande maggioranza di esso doveva essere
compiuta mediante prestazioni fornite dai coloni che vivevano sul fondo. Oltre al manso
signorile, c’era una gran quantità di piccoli mansi dipendenti. Questi ultimi appartenevano
a uomini e donne che si trovavano a livelli di libertà diversi, fuorché per il fatto che
tutti dovevano lavorare sulla terra del manso principale. Ma non occorre preoccuparsi molto
di queste differenze di classe, perché in pratica c’era pochissima differenza tra esse, e
per due secoli circa si confusero tutte nella sola generica classe dei contadini medievali.
La categoria più importante era quella dei cosiddetti coloni che, erano liberi come persone
(cioè considerati liberi dalla legge), ma legati alla terra, cosicché non potevano mai
lasciare le loro fattorie, ed erano venduti col fondo, se questo era venduto. Ciascuno dei
mansi dipendenti era condotto da una famiglia, o da due o tre famiglie che si univano
insieme per compiere il lavoro necessario. Consisteva di una o più case e di edifici
agricoli come quelli del manso principale, ma più poveri e fatti di legno, e comprendeva
terre seminate, un prato e, a volte, un piccolo pezzo di vigna. In cambio di questi
possessi, il colono o i coloni riuniti in ciascun manso dovevano lavorare sulla terra del
manso principale per circa tre giorni alla settimana. Il compito principale del fattore era
appunto quello di controllare che eseguissero bene il lavoro, e da ciascuno egli aveva
diritto di pretendere due tipi di prestazioni. Il primo era il lavoro dei campi: ogni anno
ciascun uomo era obbligato ad arare una certa superficie di terra del dominio (come fu poi
chiamata la terra del manso principale), ed anche a fare la cosiddetta corvŽe, cioè una
quantità imprecisata dello stesso lavoro, che l’amministratore poteva richiedere in più ogni
settimana, secondo il bisogno. […] Il secondo tipo di lavoro che i possessori dei mansi
dovevano compiere sulla terra dei monaci era chiamato manovalanza; essi, cioè, dovevano
contribuire a riparare gli edifici, o a tagliare gli alberi, o a cogliere la frutta, o a
fare la birra, o a portare pesi – tutto, insomma, ciò che occorresse fare e che il fattore
dicesse di fare. Grazie a questi servizi, anche i monaci avevano la loro terra coltivata. In
tutti gli altri giorni della settimana questi coloni, duramente sottoposti alla fatica,
erano liberi di coltivare le loro piccole fattorie, e si può star certi che raddoppiavano di
lena in questo secondo lavoro. Ma i loro obblighi non finivano qui, perché non solo dovevano
prestare servizi, ma dovevano anche pagare tributi alla casa grande. Non c’erano tasse dello
Stato a quei tempi, ma ogni uomo doveva pagare una certa quota per l’esercito, quota che
Carlo Magno esigeva dall’abbazia e l’abbazia esigeva dai coloni. […] I coloni dovevano
pagare, inoltre, per qualsiasi privilegio speciale che i monaci accordassero loro: dovevano
trasportare un carico di legna alla casa grande in cambio del permesso di raccogliere legna
da ardere nei boschi, che erano gelosamente riservati all’uso dell’abbazia; dovevano pagare
alcune damigiane di vino per il diritto di pascere i loro maiali negli stessi preziosissimi
boschi; ogni due anni dovevano cedere una delle loro pecore per il diritto di farle
pascolare nei campi del manso principale; dovevano pagare una specie di tassa individuale di
quattro denari a testa. Oltre a questi speciali tributi, ogni colono doveva pagarne altri in
natura; ogni anno doveva dare alla casa grande tre polli e quindici uova e una rilevante
quantità di assi di legno per riparare gli edifici; spesso doveva dare una coppia di porci;
a volte del grano, del vino, del miele, della cera, del sapone, o dell’olio. Se il colono
era anche un artigiano e fabbricava oggetti, doveva pagare col prodotto della sua abilità:
un fabbro avrebbe dovuto fabbricare lance per gli uomini che l’abbazia forniva all’esercito,
un carpentiere barili e doghe e pali da vigna, un carradore un carro. Anche le mogli dei
coloni avevano la loro parte di lavoro, nel caso che fossero di condizione servile, poiché
le serve erano obbligate a tessere la stoffa o a fare una tonaca all’anno per la casa
grande. L’esazione e l’ammasso di tutte queste cose era compito dell’amministratore, che era
chiamato villicus, o major, ed era un uomo stracarico di lavoro. […] Egli doveva esigere dai
coloni tutti i servizi stabiliti, e dir loro che cosa dovessero fare ogni settimana, e
sorvegliare che lo facessero; doveva badare che portassero alla casa il giusto numero di
uova e di porci, e che non gli affibbiassero qualche tavola curva o mal piallata. Doveva
inoltre sorvegliare i servi della casa, e dirigere il loro lavoro. Doveva curare l’ammasso,
la vendita, o l’invio al monastero dei prodotti del fondo e dei tributi riscossi dai coloni;
ed ogni anno doveva presentare un rendiconto completo e dettagliato della sua gestione
all’abate. Aveva anch’egli un suo manso, gravato come gli altri di servizi e tributi, e
Carlo Magno esortava i suoi amministratori ad essere pronti nei pagamenti, per dare il buon
esempio. […] Cerchiamo ora di considerare questi fondi sotto l’aspetto umano, e di vedere
che genere di vita potesse fare un colono che viveva su di essi. L’abbazia possedeva un
piccolo fondo chiamato Villaris, presso Parigi, nel luogo ora occupato dal parco di
Saint-Cloud. Se voltiamo le pagine del libro catastale che si riferiscono a Villaris,
scopriremo che là viveva un uomo chiamato Bodo. Questi aveva una moglie di nome Ermentrude e
tre bambini che si chiamavano Wido, Gerberto e Hildegard; e possedeva una piccola fattoria
di terra arabile e prato, con qualche filare di vite. […] Cerchiamo di immaginare un
qualsiasi giorno della sua vita. Una bella mattina di primavera, verso la fine del regno di
Carlo Magno, Bodo si alza presto, perché è il giorno in cui deve andare a lavorare la terra
dei monaci, e non osa far tardi per paura dell’amministratore. Non è difficile supporre che
abbia mandato all’amministratore uova e verdura in regalo, la settimana prima, per
ingraziarselo; ma i monaci non permettono certo ai loro amministratori di accettare grossi
regali (come talvolta succede in altri fondi), e Bodo sa che non gli sarebbe permesso
arrivar tardi al lavoro. È giorno di aratura, e quindi prende con sé il grosso bove, e il
piccolo Wido perché gli corra a fianco con un pungolo, e raggiunge i suoi amici che vengono
da qualche altra fattoria del vicinato, e che vanno anch’essi a lavorare alla casa grande.
Si riuniscono, alcuni con cavalli e buoi, altri con zappe, vanghe, scuri e falci, e si
dividono in squadre per lavorare nei campi, nei prati e nei boschi del dominio, secondo gli
ordini ricevuti dall’amministratore. Il manso attiguo a quello di Bodo appartiene a un
gruppo di famiglie: Frambert, Ermoin e Ragenold con le loro mogli e i bambini. Bodo augura
il buon giorno passando. Frambert sta andando a costruire uno steccato intorno al bosco per
impedire ai conigli di uscirne e di mangiare i germogli; Ermoin ha ricevuto l’ordine di
trasportare col carro un grosso carico di legna da ardere fino alla casa grande; e Ragenold
sta riparando un buco sul tetto di un granaio. Bodo se ne va fischiettando nell’aria fredda,
con i suoi buoi e il suo bambino; e sarà inutile seguirlo ancora, perché arerà tutto il
giorno e mangerà la sua colazione, sotto una pianta con gli altri aratori, e questo sarebbe
molto monotono. Torniamo indietro e vediamo che cosa sta facendo la moglie di Bodo,
Ermentrude. Anche lei ha il suo da fare; è il giorno in cui bisogna versare il tributo in
pollame – una grassa gallinella e cinque uova in tutto. Ella affida la piccola Hildegard al
suo secondo figliolo, di nove anni, e chiama una delle vicine che deve andare anch’essa alla
casa grande. La vicina è una serva e deve portare all’amministratore un pezzo di stoffa di
lana che sarà inviato a Saint-Germain per farne una tonaca da frate. Suo marito lavora tutto
il giorno nelle vigne del dominio, perché in questo fondo generalmente i servi curano le
viti, mentre i liberi fanno quasi tutta l’aratura. Ermentrude e la moglie del servo vanno
insieme alla casa. Qui dappertutto ferve il lavoro. Nel laboratorio degli uomini vi sono
molti bravi artigiani – un calzolaio, un carpentiere, un fabbro ferraio, e due fabbri
argentieri; non ce n’è altri, perché i migliori artigiani di tutti i fondi di Saint-Germain
abitano presso le mura dell’abbazia, così da poter lavorare per i monaci sul posto e
risparmiare la fatica del trasporto. Ma c’è sempre qualche artigiano anche sul singolo
fondo, sia che appartenga ai servi della casa grande, sia che viva sul proprio manso, e un
signore intelligente cerca di avere il maggior numero possibile di bravi artigiani sulle sue
terre. […] Ma Ermentrude non si ferma al laboratorio degli uomini. Cerca l’amministratore,
gli fa l’inchino, e consegna il pollo e le uova, e poi corre al quartiere delle donne per
pettegolare con le serve.
da E. Power, Vita nel Medioevo, Einaudi, Torino 1986