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IL REGALO

La zia di Rebecca faceva la giornalista e scriveva servizi sui posti più lontani. Ma la cosa migliore era che, ovunque andasse, spediva sempre dei meravigliosi regalini alla nipote.
«Allora, che cosa ti ha mandato, questa volta?» le chiese suo padre. Rebecca guardò il pacchetto che aveva in mano. Era confezionato con carta marrone e sull’angolo in alto a destra spiccavano due file di francobolli stranieri.
«Non lo so ancora», rispose. Stava assaporando il momento in cui avrebbe aperto il pacchetto fin da quando le era stato consegnato dal postino, un quarto d’ora prima. Alla fine fece scivolare le dita sotto il lembo incollato e lo stracciò lentamente. Dentro c’era un foglietto che accompagnava un piccolo oggetto avvolto in una carta ruvida. Rebecca tolse la carta.
«Oh, accidenti!» esclamò. «Che meraviglia!» Si trattava di un fermaglio d’avorio per i capelli, sul quale erano delicatamente intagliate delle foglie e dei fiori esotici.
«È delizioso», sorrise suo padre, ammirando il regalo.
Rebecca aprì il foglietto e si soffermò per qualche istante a leggere.
«È avorio africano», annunciò alla fine. «La zia Evelyn dice che è stato intagliato a Hong Kong, e che lei lo ha trovato in un negozietto di Singapore. Dice che si può capire che si tratta di vero avorio perché ha un minuscolo, leggero disegno a forma di diamante che si può vedere sul retro». Rebecca girò il fermaglio e lo esaminò più da vicino. «Eccolo!» esclamò. Andò allo specchio e racchiuse i suoi capelli scuri nel fermaglio.
«Non vedo l’ora di metterlo per andare a scuola, lunedì».
«Sei così fortunata», sospirò Sandy con una certa invidia mentre Rebecca mostrava il suo dono a un gruppetto di compagne di classe. «Non fai altro che ricevere regali».
«È vero», ammise Rebecca, soddisfatta.
«Ma questo è speciale. È fatto di vero avorio, che è molto difficile da trovare».
«E c’è una ragione», mormorò Tanya.
«Oh, davvero?» storse la bocca Rebecca.
Tanya era nuova, a scuola. Sandy aveva fatto amicizia con lei, ma Rebecca non la trovava simpatica e non si curava di nasconderlo. «E tu che cosa ne sai?»
Tanya guardò le altre ragazze. Esitò, cercando le parole giuste. «Ho sentito che parecchi elefanti africani muoiono a causa del bracconaggio, e che la vendita dell’avorio è stata proibita. Il tuo regalo è molto bello, ma…».
«Che cos’è il bracconaggio?» la interruppe Krystal.
«È quando si dà illegalmente la caccia agli elefanti, per poterne prendere le zanne», spiegò Tanya. «Le zanne vengono vendute per farne ogni genere di oggetti».
«Come i fermagli per i capelli?» chiese di nuovo Sandy, spostando lo sguardo su Rebecca.
«Non guardarmi», si imbronciò la ragazza. «Io non ho ucciso nessun elefante».
«No, non volevo dire che tu hai fatto qualcosa di male», replicò Tanya,
pensierosa. «Ma se nessuno comprasse gli oggetti di avorio, non ci sarebbe motivo di uccidere gli elefanti. Non credo che un animale debba morire solo perché le sue zanne possono servire per fabbricare ninnoli, statue e cose del genere. Inoltre, gli elefanti sono una specie in via di estinzione».
«E allora? Non vedo che cosa ci sia di tanto sconvolgente», rise Rebecca,
anche se gli occhi le scintillavano di collera. «Non è un mio problema, dal momento che non vivo in Africa. E poi, se l’elefante vorrà venire a riprendersi questo pezzo della sua zanna, non avrò niente in contrario. Ma fino a quel momento, lo porterò io… anche perché credo che stia meglio a me».
Le ragazze scoppiarono a ridere, tutte eccetto Tanya. «Mi dispiace se ti ho fatta arrabbiare, ma non è divertente scherzare su questo genere di cose», rimproverò Rebecca in tono serio. Il venerdì successivo fu un giorno speciale per la classe di Rebecca. La scuola aveva organizzato una gita al giardino zoologico della città per dar modo ai ragazzi di vedere una coppia di esemplari molto rari di panda che erano stati concessi in prestito dalla Cina. La visita cominciò con il discorso di un funzionario dello zoo che prima illustrò il ruolo svolto dai giardini zoologici nella società e poi mostrò delle diapositive di panda nel loro habitat naturale. Quindi la classe si divise in piccoli gruppi, ognuno dei quali aveva la propria guida per fare un giro dello zoo, prima di fermarsi davanti al recinto dei panda.
«Guarda chi c’è, lì davanti al recinto degli elefanti», disse Krystal, dando di gomito a Rebecca. Quando vide che si trattava di Tanya, Rebecca alzò gli occhi al cielo.
«Come mai non sono affatto sorpresa? Ehi, Tanya!» la chiamò. «Stai facendo una chiacchierata con i tuoi amici?»
Tanya la ignorò, così Rebecca e Krystal le si avvicinarono per prenderla un po’ in giro. Un profondo canale di cemento bordato da una catena bassa circondava il recinto degli elefanti, impedendo loro di scappare. Rebecca si diresse verso la recinzione e rimase a osservare i due grandi elefanti che si trovavano là dentro. «Hmmm… Sono piuttosto brutti. Vediamo che cosa ne dicono del mio nuovo regalo. Mi piace così tanto che sto pensando di chiedere alla zia di mandarmene un altro». Voltò la testa e si accarezzò i capelli, mostrando il fermaglio d’avorio a uno degli elefanti.
«Ehi, jumbo, non lo trovi carino?» scherzò crudelmente.
D’improvviso il più grande dei due elefanti si girò e trottò veloce verso il canale che lo separava dalle due ragazze, fermandosi solo quando si trovò sul bordo. Il sorriso maligno di Rebecca svanì nel vedere quell’imprevedibile reazione.
«Non dovresti stuzzicarli», la ammonì gentilmente Tanya. «Non si sa mai quello che può succedere».
Quella notte Rebecca non poté fare a meno di ripensare allo strano episodio, che le aveva lasciato una sensazione sgradevole. «Non capisco perché Tanya la faccia tanto lunga con gli elefanti», borbottò tra sé, davanti allo specchio della sua camera da letto. Sollevò un braccio e passò la mano sul fermaglio di avorio intagliato che aveva nei capelli. L’immagine nello specchio tremolò leggermente, poi la stanza alle sue spalle si annebbiò.
«Che cosa accidenti…?» mormorò. Il cuore cominciò a batterle così forte che poteva sentirne le pulsazioni cadenzate. Da qualche parte dietro di lei si levò un suono distante di tamburi che ne accompagnava il ritmo colpo su colpo. Mentre guardava a occhi spalancati, Rebecca vide il riflesso nello specchio mutare. Girandosi su se stessa, si rese conto di non essere più nella sua stanza ma in una pianura erbosa che si stendeva a perdita d’occhio. Qui e là dei frondosi alberi di acacia si stagliavano contro l’orizzonte.
«È impossibile!» ansimò. «Sto sognando!». Fece un passo e sentì che il piede le affondava in qualcosa di freddo e di scivoloso. Guardando giù, vide che si trovava sul bordo di una pozza fangosa. Le sponde della pozza erano percorse da tracce… tracce di animali di ogni tipo. Era un enorme abbeveratoio e, all’estremità più lontana, un paio di acacie fornivano uno stentato riparo dal sole infuocato. In quell’oasi d’ombra si trovava un piccolo branco di elefanti africani. C’erano parecchi cuccioli e quattro o cinque adulti. I più grossi tra questi si voltarono verso di lei, facendola strillare di paura.
«Rebecca! Che cosa sta succedendo? Ti senti male? Che cos’hai?»
D’un tratto Rebecca sentì la mano di suo padre su una spalla.
«Papà», mugolò, guardandolo attraverso le lacrime. «Io… io credo che…». Ma vedendo la sua espressione si rese conto che era impossibile spiegargli quello che le era appena accaduto. «Ho… ho solo avuto un terribile incubo».
Il giorno seguente Tanya rimase a casa per un’influenza, e Rebecca dimenticò ciò che era successo, fino a quando, quel pomeriggio, non si incamminò da sola verso casa. Prendendo la solita scorciatoia per il parco, esitò un istante accanto alla siepe.
«È ridicolo», si rimproverò da sola. «Mi trovo in un luogo pubblico, in pieno giorno». Raddrizzò le spalle e procedette lungo il sentiero. Ben presto la visuale del quartiere limitrofo8 venne coperta dagli alberi e dai cespugli. Non appena ebbe svoltato all’estremità della siepe, tirò un sospiro di sollievo, ma la sua contentezza durò poco.
Lì, proprio davanti ai suoi occhi, si estendeva la stessa pianura inondata dal sole che aveva visto riflessa nello specchio la sera prima. Rebecca poteva persino sentire il ronzio degli insetti che svolazzavano pigramente nell’erba alta e riarsa, poteva sentire la vampata del sole sui capelli e sul viso… benché fino a pochi istanti prima la giornata fosse stata fredda e nuvolosa. Voltandosi repentinamente a guardare oltre le sue spalle, vide due alberi di acacia accanto a una pozza d’acqua fangosa. Una famiglia di elefanti osservava silenziosamente la scena. Il capobranco fece alcuni passi verso di lei.
«So che questo non sta accadendo davvero», cercò di rassicurarsi.
«Sono io che mi sto immaginando tutto, e la mia immaginazione non può farmi del male». Ma quando la bestia fantasma si lanciò alla carica, Rebecca gridò e si mise a correre con quanto fiato aveva in gola. Mentre i suoi piedi calpestavano la terra riarsa, cercava disperatamente una via di fuga. All’improvviso vide quello che sembrava un profondo e stretto burrone e si precipitò in quella direzione, mentre la bestia infuriata continuava a guadagnare terreno, facendosi sempre più vicina. Con la sensazione che i polmoni le stessero per scoppiare, Rebecca fece un ultimo sforzo e saltò verso il burrone. Subito la bestia si fermò e barrì in segno di vittoria, mentre l’immagine della pianura africana cominciava a dileguare11 nella mente della ragazza e il suo quartiere riappariva come galleggiando davanti ai suoi occhi. Fu l’ultima cosa che vide. Non sentì nemmeno il colpo mentre qualcosa la urtava violentemente di lato, scaraventandola in aria come una bambola di pezza.
«Si è precipitata nel mezzo della strada, proprio davanti a me!» raccontò con voce lamentosa un camionista al poliziotto che prendeva appunti su un taccuino. «Non… non ho nemmeno avuto il tempo di reagire».
«È così», intervenne una vecchia signora. «Quella ragazzina è sbucata fuori dalla siepe come se avesse avuto qualcuno alle calcagna. Io ho visto tutto».
A pochi passi di distanza, altri due poliziotti si trovavano sul marciapiedi.
«Probabilmente non ha nemmeno capito che cosa l’ha investita», disse mestamente uno di loro. Poi si inginocchiò a raccogliere un piccolo, aguzzo oggetto d’avorio. Sembrava la punta spezzata di una zanna.
«Qualcosa deve averla spaventata a morte», rifletté l’altro. «Vorrei tanto sapere che cosa».
«Probabilmente non lo sapremo mai», sospirò il primo poliziotto, gettando l’oggetto nel canale di scolo, dove rotolò fino a fermarsi accanto a un fermaglio rotto.

da Q. L. Pearce, Nuovi racconti da brivido per dormiglioni, trad. di Daniela Padoan, Milano, Sperling e Kupfer – Sperling junior, 1999, riduzione
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